di Emanuela Audisio (repubblica.it, 4 marzo 2024)
Basta un gesto. Per dire: non ci sto, non sono dei vostri. Per riannodare e rinnovare la protesta. Basta quel pugno, senza nazionalità, né passaporto, ma pieno di storia. Per sfregare la pelle del razzismo, per irritarlo, per sfidarlo. Tra quello di Vinícius Júnior, 23enne brasiliano, calciatore del Real Madrid e quello con il guanto nero di Tommie Smith e di John Carlos passa più di mezzo secolo (56 anni).
Sempre in uno stadio: Vinícius al Mestalla di Valencia, Spagna, Europa, partita di Liga, dopo aver segnato due gol e pareggiato, Smith e Carlos dopo aver vinto oro (con record mondiale) e bronzo nei 200 metri alle Olimpiadi in Messico nel 1968. Perché certi gesti non invecchiano e non s’impolverano? Perché appena li rifai danno fastidio come la prima volta? Come fossero un capo che non passa mai di moda. In ogni sport e in ogni campo: hanno alzato il pugno mentre s’inginocchiavano anche gli atleti solidali con il movimento Black Lives Matters. Quasi a sentire il bisogno di riallacciarsi alla storia e di dire: noi siamo gli eredi di quella protesta, noi oggi vi rendiamo omaggio per quello che avete fatto ieri e c’impegniamo per un diverso domani.
Vinícius è il giocatore di colore più offeso in Europa, ormai è diventato preda di cori e di insulti, con la scusa che è uno che provoca e che fa lo sbruffone quando esulta. Non se ne sta mai buono, questo ragazzo, tra finte, dribbling, tiri. Divertiamoci a disprezzarlo, così si dà una calmata e noi ci sfoghiamo. Perfino il governo brasiliano, tramite la sua ministra per l’Uguaglianza, ha chiesto alla Spagna risposte adeguate. L’anno scorso a Valencia a Vinícius hanno urlato mono (scimmia in spagnolo) e gli ultrà dell’Atletico Madrid hanno appeso un manichino nero con la sua maglia giù da un ponte, con lo striscione «Madrid odia il Real».
In quella partita ci furono tensioni e nervosismi, tanto che Ancelotti chiese al giocatore: te la senti di continuare? Il match finì con conseguenze penali e l’apertura di un processo. Per cui quest’anno gli ultrà del Valencia erano ancora più inferociti e intenzionati a vendicarsi. Vinícius è stato fischiato a ogni palla, ancora insultato. Ma dopo il primo gol si pianta bene in terra, guarda la curva che gli sta ancora urlando addosso, e con il braccio destro gli fa quel pugno. E poi un altro gol. Dentro a quel pugno c’è la stessa rabbia, anche se le storie sono diverse.
Vinícius jr. guadagna 10 milioni a stagione. Tommie Smith, settimo di dodici figli, nonostante migliorasse un record dopo l’altro e per questo il suo soprannome era Jet, per mantenersi lavorava da uno sfasciacarrozze. Studiava alla San José State University, sulla West Coast in California, a meno di un’ora da Berkeley e lì insegnava, unico professore nero, il sociologo Harry Edwards, tra gli organizzatori della marcia di Selma in Alabama. Edwards aveva passato giorni in biblioteca a rivedere e a leggere delle Olimpiadi del passato per cercare qualcosa.
Come si poteva manifestare un’opposizione al sistema durante la premiazione, nel momento più visto? Sapeva che quelli del Messico sarebbero stati i primi Giochi trasmessi in diretta. Si accorse che nel 1936 a Berlino i due atleti ufficialmente del Giappone, ma in realtà coreani, oro e bronzo nella maratona, costretti a gareggiare per il Paese che li aveva invasi, al momento dell’inno avevano girato la testa e mostrato insofferenza, per esplicitare la loro lontananza. Quella era l’idea vincente: fare un gesto che non potesse essere oscurato.
Nel campus di San José, che adesso forma menti per la new economy, c’è una statua che ricorda quel podio ribelle. L’hanno deliberata e pagata, 300mila dollari, gli studenti dell’Università. Il secondo posto, quello dell’australiano Peter Norman, è vuoto. Lo volle lui così: un gradino della storia da condividere con tutti, infatti ci vanno in tanti a farsi la foto. La statua Victory Salute, opera dell’artista Rigo 23, è oggi un punto d’incontro per chiunque voglia manifestare. Smith continua a dire: «Non mi è uscita una parola, ma il mio gesto parla ancora a tutti». Più che altro ha posto per tutti.