di Susanna Schimperna (huffingtonpost.it, 12 aprile 2023)
«Sono un dissidente americano. Non credo che i miei obiettivi siano cambiati da quando avevo quattro anni e combattevo con i bulletti a scuola». Così Abbie Hoffman, pochi mesi prima di morire. Più che un’orgogliosa rivendicazione di coerenza e continuità, era la riposta polemica ai media che lo accusavano di essersi perso, di aver smesso da tempo di avere una progettualità e di aver dato invece spazio solo alle proprie nevrosi e alle droghe.
Innegabile che Hoffman conducesse una vita sregolatissima e fosse così litigioso da alienarsi una dopo l’altra le simpatie di quelli che gli erano vicini nelle battaglie politiche o per affetto. Ma è vero pure che non gliene importava nulla. L’autonomia, di cui aveva fatto una bandiera, significava per lui soprattutto essere così forti e risolti, sicuri e liberi, da avere solo relazioni capaci di arricchire, e non portate avanti per bisogno emotivo, per paura di restare soli.
Abbot Howard Hoffman, detto Abbie, nasce il 30 novembre 1936. Si laurea alla Brandeis University del Massachusetts, dove tra i professori ha Herbert Marcuse, quindi si specializza a Berkeley e nei primi anni Sessanta è a Worcester, a lavorare come psicologo in un ospedale statale. Parallele agli studi, le proteste per i diritti sociali, contro l’establishment, per una lotta non violenta e creativa considerata come urgenza, necessità. Organizza il Comitato di Coordinamento degli Studenti Non Violenti, distribuisce insieme ai Diggers (attori e attivisti sociali) cibo gratis, e nel ’67 organizza un’azione dimostrativa di cui parlerà il mondo: contro il capitalismo e la guerra nel Vietnam, insieme agli altri dimostranti getta banconote da un dollaro nella galleria alla Borsa di New York, gustandosi la frenesia con cui gli scambisti si buttano, si affannano, si accapigliano per raccogliere i biglietti.
Tutte le proteste di Hoffman hanno queste connotazioni: creatività, situazionismo, umorismo. Sempre contro la guerra del Vietnam, capeggia oltre 50mila manifestanti che si dispongono intorno al Pentagono e cercano di sollevarlo in aria con la forza del pensiero, alla Convention democratica a Chicago propone insieme al partito Yip (Young Internation Party) la candidatura di un maiale. Viene arrestato, e con lui Jerry Rubin, Tom Hayden (che diventerà in seguito senatore), Bobby Seale. Un processo seguito da giornali e tv con eccitazione, perché ad ogni udienza Abbie se ne inventa una nuova, a partire da quando presta giuramento alzando non l’intera mano ma il dito medio. Alla sentenza, sorride e invita il giudice a provare l’Lsd.
Di tutte le proteste di Abbie, quella che viene più spesso abbinata al suo nome è la famosa irruzione sul palco di Woodstock all’alba del 17 agosto 1969, mentre stanno suonando gli Who. Nel suo ultimo libro, The Autobiography of Abbie Hoffman (in Italiano Ho deriso il potere. Le imprese del più grande eroe controculturale americano, ed. Skake), la racconta lui stesso, rubricando però la reazione di Pete Townshend (che l’avrebbe colpito con la sua chitarra, ferendolo al collo) come una pura leggenda metropolitana. La vicenda è semplice. Era stato imprigionato John Sinclair, poeta, cantante e attivista del Wpp (Partito delle Pantere Bianche, che aveva come programma “un pianeta pulito, liberare i prigionieri politici, difendere il rock ‘n’ roll, la droga la possibilità di fare sesso nelle strade, e abolire il capitalismo”). Subito dopo aver concluso il brano Pinball Wizard e mentre Townshed stava accordando la chitarra, Abbie irrompe sul palco e grida a favore della liberazione di Sinclair, condannato a nove anni di prigione per possesso di marijuana. Pete si infuria, lo colpisce e, più avanti nel concerto, ribadisce al microfono che qualunque dannata persona dovesse di nuovo balzare sul palco avrà lo stesso trattamento. Nel racconto di Townshend, una piccola differenza: Abbie l’avrebbe interrotto mentre stava per cantare The Acid Queen. Comunque, dopo essere stato cacciato Abbie si siede su un lato del palco a gambe incrociate, con il collo sanguinante, e Pete si gira verso di lui mormorandogli «I’m sorry». Ne riceve «Fuck you».
A John Sinclair, qualche anno dopo, John Lennon dedicherà un brano omonimo, e Townshend dirà che era perfettamente d’accordo con la richiesta di liberare il poeta. Tanti altri arresti, per Hoffman. Coinvolto in una storia di cocaina, riesce a fuggire e per sei anni vive sotto il falso nome di Barry Freed, continuando a fare politica. Undici Stati americani gli interdicono l’ingresso, tutto diventa troppo difficile. Nel 1980 si consegna e va in prigione. Ne esce presto, ma nel 1987 viene arrestato di nuovo mentre protesta contro il reclutamento della Cia all’Università del Massachusetts: è il suo quarantaduesimo arresto.
Muore suicida ingerendo barbiturici il 12 aprile 1989, lasciandoci molti libri di cui il primo, Steal this Book (Ruba questo libro, ed. Stampa Alternativa), solo negli Usa ha venduto ad oggi oltre due milioni di copie, e ha ispirato il titolo del film biografico Steal this Movie! di Robert Greenwald, con Vincent D’Onofrio protagonista. Si parla di Abbie anche in Forrest Gump: a un certo punto appare un tipo vestito come lui, con la sua inconfondibile camicia ricavata da una bandiera americana, mentre a Washington tiene un discorso contro la guerra del Vietnam.