di Giacomo Papi (ilpost.it, 21 aprile 2023)
Quando Nina Simone morì, il 21 aprile 2003, a settant’anni, fu celebrata come una delle più importanti musiciste del Novecento. Era un riconoscimento non scontato, perché nella sua lunga carriera, iniziata negli anni Cinquanta, aveva attraversato lunghi anni di oblio durante i quali era passata di moda, soprattutto negli Stati Uniti.
Il giorno dopo la sua morte, avvenuta nel sonno per un tumore al seno, nella sua casa di Carry-le-Rouet, nel Sud della Francia, dove si era trasferita dieci anni prima, Le Monde ricordò che «suonava il piano vestita in pelle di pantera indossando un turbante». Il New York Times scrisse: «Sebbene sia stata più spesso descritta come una cantante jazz, era impossibile da classificare… Negli anni Sessanta nessun interprete musicale è stato identificato in modo più stretto con il Movimento per i diritti civili».
Ma come spesso accade fu un caso a fare sì che il mondo si ricordasse di lei dopo quelli che, per chi non frequentasse i festival e non fosse appassionato di jazz, erano stati quasi trent’anni di assenza. Nel 1987, cioè nel periodo in cui Nina Simone si esibiva al Ronnie Scott’s Jazz Club di Londra abbandonando spesso il palco dopo un quarto d’ora perché troppo ubriaca per continuare a cantare, una sua vecchia e dimenticata canzone fu scelta per uno spot di trenta secondi, diretto da Ridley Scott e con Carole Bouquet, del profumo Chanel n° 5. My baby just cares for me diventò all’istante una hit nel Regno Unito, si diffuse in Europa e ritornò negli Stati Uniti. Era una canzone allegra e ironica, quasi irridente, abbastanza lontana dal tono dolente della maggior parte del repertorio della Simone. La canzone era stata scritta nel 1930 per un musical di Broadway, Whoopee!, da due maschi bianchi, Walter Donaldson, musicista, e Gus Kahn, paroliere ebreo tedesco emigrato negli Usa da bambino.
Nina Simone l’aveva incisa nel 1957 e pubblicata nel 1958 senza che fosse quasi notata, come sesta traccia del suo primo album Little girl blue. Il fatto che a cantare una canzone che aveva un “baby” come destinatario fosse ora una donna, insieme a qualche aggiornamento pop del testo (negli anni Trenta il “Liz Taylor style”, per esempio, non poteva esistere per ovvie ragioni anagrafiche: Liz Taylor era nata nel 1932), ribaltava il senso della canzone, rendendola più malinconica ma anche spiritosamente moderna. Al “baby” maschio non importavano i vestiti, era immune cioè da un cliché di vanità e frivolezza tradizionalmente attribuito alle donne. In realtà My baby just cares for me raccontava, semplicemente, un amore felice, come quelli che Nina Simone non riuscì mai ad avere.
Il suo vero nome era Eunice Kathleen Waymon. Era nata il 21 febbraio 1933 a Tryon, una cittadina del North Carolina proprio sul confine con il South Carolina. Stare in bilico e sfondare i confini, tra Nord e Sud, generi, timbri vocali, epoche e continenti diversi, America, Africa ed Europa, euforia e disperazione, avrebbe caratterizzato la sua vita, la sua carriera e la sua arte. Era la sesta degli otto figli di John Waymon, barbiere e tintore, e di Mary Kate Irvin, che lavorava come donna di servizio e predicava nella Chiesa metodista di Tryon, dove Simone, già da bambina, era la pianista ufficiale. Come avrebbe raccontato a Le Monde nel 1991: «Sono diventata quello che mia mamma e Miss Massinovitch hanno voluto che fossi, in altre parole non ho avuto scelta».
Muriel Massinovitch era Miss Mazzy, una donna inglese sposata a un pittore di paesaggi di origine russa che le insegnò pianoforte da quando aveva cinque anni. Il primo anno a pagare fu Katherine Miller, una vedova per cui la madre di Simone faceva le pulizie, poi Miss Mazzy creò un fondo tra gli abitanti di Tryon per permettere alla bambina di sviluppare quello che già allora pareva un talento straordinario. Mentre imparava a suonare Mozart, Beethoven e Bach soprattutto – che infatti a stare attenti si sentirà nella sua futura musica – Simone cantava in chiesa e alla Tryon Colored School, la scuola pubblica per bambini di origine afroamericana, con le Waymon Sisters Group, il gruppo che aveva formato con le sue sorelle. Fu sempre Miss Mazzy, nella primavera del 1943, a organizzare in segno di ringraziamento per i donatori il suo concerto di debutto, che però coincise con la sua prima presa di coscienza del razzismo. Simone avrebbe raccontato anni dopo che, quando vide i suoi genitori essere spostati dalle prime alle ultime file per fare posto ai bianchi, si rifiutò di cantare fin quando non ottenne di farli tornare davanti e riaverli vicini.
Il sogno di Miss Mazzy e di sua mamma, e forse anche di Simone, non è dato sapere, era che diventasse una pianista concertista. E così nell’estate del 1950 fu iscritta alla Juillard School, il conservatorio privato di New York, per prepararsi bene al test che, nelle speranze di tutti, le avrebbe permesso di essere ammessa al prestigioso Curtis Institute of Music di Philadelphia, in Pennsylvania, dove la famiglia si era trasferita per sostenerla. Fu respinta e per lei fu la prova definitiva di essere discriminata a causa del colore della sua pelle. Prese lezioni private, ma non provò mai più a entrare nella scuola. «Fu come se i miei professori, la mia comunità e i miei genitori mi avessero mentito e tradito» avrebbe raccontato a Le Monde nel 1991, per poi chiarire le sue certezze al Philadelphia Inquirer due anni dopo: «Fui respinta perché ero nera».
Nonostante le smentite del Curtis Institute, che quell’anno aveva ammesso soltanto tre allievi su settantadue candidati, negli anni Cinquanta le discriminazioni razziali erano apertamente rivendicate e stava per cominciare la stagione del Movimento per i diritti civili. La Corte suprema dichiarò incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole nel 1954. Fu un anno importante anche per Simone, che cominciò a esibirsi al Midtown Bar & Grill di Atlantic City, nel New Jersey, prendendo qui il nome d’arte di Nina Simone, scelto per non dare a sua madre il dispiacere di sapere che sua figlia aveva tradito la musica classica per il jazz. Il nome di battesimo derivava da Niña, il soprannome con cui la chiamava il suo primo fidanzato; il cognome da Simone Signoret, l’attrice francese famosa per il film Casque d’Or che aveva visto nel 1952 e di cui si era innamorata, a dimostrazione dell’attrazione esercitata dalla Francia e da Parigi sugli artisti americani di allora.
Quando si presentò al Midtown Bar la prima sera, Nina Simone non sapeva neanche di dover cantare. Credeva di essere stata ingaggiata esclusivamente come pianista, per dire quanto poco contasse sulla sua voce e quanto invece, giustamente, confidasse sul piano. Ma per fortuna cantò, e quello che fece non era musica classica, ma neanche jazz, spiritual, blues o soul. Era tutto quanto. «Se dovessi essere chiamata in qualche modo», avrebbe scritto nella sua autobiografia I put a spell on you del 1992, «dovrebbe essere “cantante folk” perché c’era più folk e blues che jazz nel mio modo di suonare e cantare».
Forse può essere definito jazz il repertorio che Nina Simone portava in giro nei piccoli club dove cominciò a essere notata, e che sarebbe confluito nel suo primo album Little girl blue del 1958 (i cui diritti vendette per 3mila dollari alla Bethlehem Records, che lo aveva prodotto, perdendone più di un milione, racconta nell’autobiografia). L’album conteneva due classici, Love me or leave me, ancora di Donaldson e Kahn, e soprattutto I loves you, Porgy di George Gershwin, che Nina Simone aveva imparato nell’interpretazione di Billie Holiday e che nel 1959 riportò al successo facendola arrivare al ventesimo posto nelle classifiche statunitensi.
Intorno alla musica la violenza razzista aumentava anziché diminuire, alimentata dalla paura causata dalla forza crescente del Movimento per i diritti civili. Nel 1955 era stato linciato Emmett Till, un ragazzo di quattordici anni che aveva fischiato a una bianca nel Mississippi, e Rosa Parks si era rifiutata di alzarsi su un autobus in Alabama. Nel 1957 il reverendo Martin Luther King, nato nel 1929, quattro anni prima di Nina Simone, aveva radunato sessanta leader ad Atlanta, in Georgia, e il presidente Dwight Ike Eisenhower aveva mandato la polizia federale per consentire a nove studenti neri, passati alla storia come “Little Rock Nine”, di entrare nella loro scuola a Little Rock, Arkansas, per quanto tra gli insulti e le minacce degli studenti bianchi e dei loro genitori.
La carriera di Nina Simone cresceva, ma cresceva anche la sua consapevolezza sociale. Nel 1958, a venticinque anni, si sposò e divorziò per la prima volta: con Don Boss, un imbonitore di fiere, bianco. Nel 1959 suonò al Blue Note di Chicago qualche giorno prima di Duke Ellington e fu ingaggiata dalla Carnegie Hall di New York per il concerto di Natale, dove si sarebbe esibito anche Louis Armstrong, ma dovette disdire perché malata. Nel 1961 si risposò con Andrew Stroud, un poliziotto di New York che diventò presto il suo manager e l’amministratore dei suoi soldi. Nel 1963 nacque Lisa Celeste, la loro unica figlia. Furono undici anni di matrimonio pieni di scenate di gelosia, depressione e violenze e stupri subiti da Simone.
Mentre la vita privata di Nina Simone si faceva sempre più tormentata, il suo impegno politico si fece più radicale, anno dopo anno. Nel 1964 uscì Nina Simone in Concert, il suo primo album con la Phillips Records e il più politico, il primo passo della sua progressiva rottura con l’America. Oltre ai classici I loves you, Porgy e Don’t smoke in bed, il disco conteneva esclusivamente canzoni politiche, la maggior parte delle quali scritte da lei stessa e tutte eseguite dal vivo alla Carnegie Hall. C’erano Pirate Jenny, dall’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht, declinata come una metafora delle lotte per i diritti civili; Old Jim Crow, contro le leggi “Jim Crow” con cui dalla fine dell’Ottocento fu sistematizzata la segregazione razziale negli Stati Uniti; Go limp, un pezzo satirico in cui una madre ammonisce la figlia a non entrare nella Naacp, la National Association for the Advancement of Colored People, una delle più grandi organizzazioni statunitensi per i diritti civili, per non mettere a rischio la propria verginità; e soprattutto l’inno Mississippi Goddam, che scrisse dopo l’assassinio dell’attivista Medgar Evers a Jackson, Mississippi, e l’attentato in una chiesa battista a Birmingham, Alabama, che uccise quattro ragazze nere e ne accecò per sempre un’altra.
Il testo di Mississippi Goddam diceva: «All I want is equality / For my sister, my brother, my people, and me. / Yes, you lied to me all these years» («Tutto quello che voglio è uguaglianza, per mia sorella, per mio fratello, per il mio popolo e per me. Sì, mi avete mentito per tutti questi anni»). Raccontò a Stephen Cleary, che cofirmò la sua autobiografia: «Fu la mia prima canzone per i diritti civili», scritta «nell’urgenza della furia, dell’odio e della determinazione» perché «improvvisamente compresi che cosa voleva dire essere neri in America nel 1963». Negli anni Sessanta Nina Simone diventò uno dei simboli della lotta per i diritti civili dei neri. «Mi sentivo più viva allora di adesso» avrebbe raccontato, «perché c’era bisogno di me e potevo cantare per aiutare il mio popolo». Ma gli anni Sessanta furono anche il decennio delle sue interpretazioni più originali e moderne, ormai non riconducibili al jazz, come Lilac wine nel 1966 e Sinner man, Feeling good, I put a spell on you e una versione di Strange fruit, canzone che descrive un linciaggio come uno strano frutto che pende da un albero, straziante quanto quella di Billie Holiday del 1959.
Con la musica anche il suo stile cambiò: abbandonò i vestiti scuri da sera degli anni Cinquanta per abiti in stoffe sempre più africane, e smise di stirarsi i capelli per lasciarli crescere crespi, seguendo lo stesso percorso raccontato nella sua autobiografia dal suo amico e vicino di casa Malcolm X, al cui radicalismo si avvicinò sempre di più, allontanandosi dalle posizioni non violente di Martin Luther King. E fu come se un altro confine fosse varcato, perché quello che stupisce guardando le foto dell’infanzia di Eunice Waymon a Tryon è che sembrano emergere da un tempo confinato in un passato immobile, in cui la schiavitù sembra immutabile, dove la storia non può arrivare per non portar scompiglio, mentre le foto di Nina Simone dagli anni Sessanta in poi sono quelle di una donna contemporanea attraversata dalle mode e dalle lotte del suo tempo.
È anche un confine musicale e di costume, come se Nina Simone per il suo stile, il suo modo di vivere l’amore e di scegliere le canzoni sia stata l’anello di congiunzione tra la generazione di Bessie Smith, Ella Fitzgerald e Billie Holiday, le grandi cantanti nere degli anni Quaranta e Cinquanta, e la generazione di Aretha Franklin, Dionne Warwick e della disco music. Negli anni Settanta il lungo e doloroso processo di liberazione dalla schiavitù in cui Nina Simone sentiva di essere stata confinata per nascita, in quanto nera e povera, la portò a ripudiare gli Stati Uniti e ad abbandonarli. Sentiva di essere stata danneggiata e boicottata a causa del proprio impegno politico e vedeva gli Stati Uniti spostarsi sempre più a destra, dopo l’omicidio di Malcolm X nel 1965 e di Martin Luther King nel 1968, per cui cantò Why? (The King of Love is dead). «L’America che avevo sognato durante gli anni Sessanta» raccontò al biografo «adesso sembrava un brutto scherzo, con Nixon alla Casa Bianca e la rivoluzione nera rimpiazzata dalla disco».
Anche il matrimonio con Stroud stava per finire. E le sue crisi erano sempre più frequenti. Nel settembre del 1970, dopo aver lasciato nella sua casa di Mount Vernon, New York, l’anello matrimoniale e la figlia, volò a Barbados, dove ebbe una storia con il primo ministro Errol Barrow. Quando seppe di essere accusata di evasione fiscale negli Stati Uniti, disse che lo aveva fatto per protestare contro la guerra in Vietnam e si lasciò convincere dalla cantante Miriam Makeba, che era sua amica, a trasferirsi in Liberia, abbracciando l’ideale del ritorno in Africa predicato da Marcus Garvey e da tutto il movimento Panafricanista. Per tre anni Nina Simone visse a Monrovia, la Capitale della Liberia. In quel periodo il presidente era William J. Tolbert Jr., che aveva promesso grandi riforme.
«Africa, dall’altra parte del mondo rispetto a New York», raccontò Simone nell’autobiografia. «Forse là avrei trovato un po’ di pace, oppure un marito. Forse sarebbe stato come tornare a casa». Si innamorò davvero di un uomo, di trent’anni più vecchio: C.C. Dennis, padre di Cecil, il ministro degli Esteri della Liberia. Nina Simone lo avrebbe descritto come una specie di «Rhett Butler liberiano», citando il protagonista di Via col vento. Dichiarò di essere anche disposta a sposarlo, solo che Dennis pretendeva di dirle come vestirsi, le vietava di uscire o di cantare in pubblico. Furono altri anni difficili: Nina Simone aveva perso l’equilibrio, come racconta nel documentario What happened, Miss Simone? (su Netflix, tratto dal libro di Alan Light tradotto da il Saggiatore) la figlia Lisa, che allora era bambina, ma decise di ritornare negli Stati Uniti: «Passò da conforto a mostro della mia vita».
Ci fu un altro amore, con uno scrittore africano, Imojah, che finì nel 1977, quando Nina Simone decise di trasferirsi a Ginevra, in Svizzera, con la figlia, per farla studiare. Ricomparì al Festival di Montreux, in Svizzera, nel 1976, a litigare con il pubblico e cantare una sua canzone, Stars, in una delle interpretazioni più disperatamente belle di sempre. A New York tornò nel 1978, dopo quattro anni e mezzo di assenza, e si presentò al primo concerto vestita come una regina africana: «Miss Simone indossava una pesante tunica cerimoniale multicolore con un lungo strascico che doveva essere continuamente sistemato, e scintillanti dischi d’oro intorno al collo», scrisse il New York Times.
Dal 1981 visse per due anni a Parigi, dove abitava il suo agente Raymond Gonzalez, esibendosi in un piccolo club, Aux Trois Mailletz. Però faceva sempre più fatica. Nel 1988 Gerri De Bruin, un amico olandese, la portò a vivere con sé a Nijmegen, nei Paesi Bassi, dove finalmente le fu diagnosticato il disturbo bipolare di cui aveva sofferto da sempre. Fu assunto un infermiere inglese, Jackie Hammond, per prendersi cura di lei. Come nella canzone My baby just cares for me dello spot di Chanel n° 5.
Nel 1993 ritornò nel Sud della Francia, definitivamente, in una villa sulle colline a Carry-le-Rouet, vicino ad Aix-en-Provence. Registrò anche il suo ultimo album, A single woman, e ritrovò un po’ di equilibrio: in quel periodo spesso pretendeva di farsi chiamare Dr. Simone. Nel 1998 le fu diagnosticato il tumore al seno. Nel marzo del 1999 fece il suo ultimo tour, nel Regno Unito: a Manchester, Liverpool e Brighton. Il 1° luglio 1999 si esibì alla Royal Festival Hall di Londra per il Meltdown Festival diretto da Nick Cave (al ragazzo di produzione che nei camerini le domandava se avesse bisogno di qualcosa, rispose: «Gradirei un po’ di champagne, di cocaina e qualche salsiccia»). Cantò per l’ultima volta in tv al Music of the Millennium Show di Channel 4.
Il 19 aprile 2003, due giorni prima che Nina Simone morisse e cinquant’anni dopo la sua bocciatura al test di ammissione, il Curtis Institute of Music di Philadelphia decise di conferirle un diploma ad honorem per «il suo contributo all’arte della musica». Il suo corpo fu cremato e le sue ceneri sparse in vari Paesi africani. La canzone che Nina Simone aveva scelto per aprire il proprio funerale era Ne me quitte pas di Jacques Brel, che aveva cantato in pubblico centinaia di volte, rifiutandosi sempre, però, di pronunciare l’ultima strofa, che odiava. Diceva: «Laisse-moi devenir / l’ombre de ton ombre / l’ombre de ta main / l’ombre de ton chien» («Lasciami diventare la tua ombra / l’ombra della tua ombra / l’ombra della tua mano / l’ombra del tuo cane»). Forse aveva vissuto anche le sue relazioni al confine tra libertà e schiavitù, e quelle parole per una donna nera e libera erano troppo.