Cosa resta della satira in Italia

di Nicola Lagioia (internazionale.it, 5 novembre 2015)

Che fine ha fatto la satira in Italia? Ce n’è ancora bisogno? A meno di un anno dalla strage di Charlie Hebdo, che equilibrio abbiamo trovato tra libertà d’espressione, insulto inaccettabile e salutare bisogno di deridere il potere? Soprattutto, c’è da chiedersi se un certo modo di deridere il potere abbia mostrato la corda più di quanto non osiamo sospettare.il_male_false_ppLo scorso settembre, durante la Mostra del cinema di Venezia, ho avuto la fortuna di moderare un dibattito a cui hanno partecipato alcuni protagonisti della stagione d’oro della satira italiana tra gli anni Settanta e Ottanta. L’occasione era Zac – I fiori del Male, il film documentario di Massimo Denaro dedicato alla figura di Pino Zac e all’avventura del Male, l’indimenticata rivista settimanale che seppe guadagnarsi l’odio del giornalismo e della politica istituzionali, nonché l’amore incondizionato di migliaia di lettori. All’incontro, oltre al regista, erano presenti Vincenzo Sparagna, Riccardo Mannelli, Vincino, Valter Zarroli e Drahomira Biligova, che di Zac è stata moglie.

Pino Zac, al secolo Giuseppe Zaccaria, fondò Il Male nel 1977, ed è l’ennesima vittima della triste sindrome italiana che ci fa rimuovere ciò per cui dovremmo provare almeno un po’ d’orgoglio. Oggi dimenticato, Zac non si limitò a far nascere Il Male. Fu tra i primi a introdurre da noi le strisce di fumetti autoconclusive. Nel 1970 portò sullo schermo Il cavaliere inesistente di Italo Calvino, un film girato con tecnica mista. Frequentò la Harvard della satira europea che era ed è ancora il settimanale francese Le Canard enchaîné. Importò codici espressivi su cui il giornalismo italiano era indietro di anni. Fu sicuramente il primo a disegnare il papa senza veli, anche se non per tutti questo è stato un merito.

Dar vita a Il Male (già I quaderni del Sale) in un’Italia di piombo e acquasantiere dentro le quali una mano lavava l’altra con una fregola da lady Macbeth, fu certamente un merito, anche perché quell’avventura ne generò delle altre. Cannibale, Frigidaire, Tango, Zut, Cuore (l’ultima rivista satirica che in Italia abbia mosso qualcosa), pur nella loro diversità, hanno tutte un debito con Zac e i suoi spericolati sodali: disegnatori, vignettisti, intellettuali iconoclasti quanto certe punk-star dell’epoca, alcuni dei quali erano appunto insieme a me alla fine di quest’estate, a parlare di ciò che è stato e di cosa non è più.

Irritanti più del previsto

Molti ricordano le finte copertine con cui Il Male parodiava i quotidiani italiani. La più nota risale al 1979 ed è il falso di tre giornali (Paese Sera, La Stampa e Il Giorno) con la notizia di Ugo Tognazzi arrestato con l’accusa di essere il capo delle Brigate Rosse. Non furono da meno la falsa copertina della Repubblica nei giorni del funerale di Aldo Moro (titolo: “Lo Stato si è estinto”) e il finto Corriere dello Sport che annunciava l’annullamento dei Mondiali del 1978.

Queste, che possono sembrare goliardate di cattivo gusto, fecero infuriare i direttori di diversi giornali presi in giro. Anche perché, più che semplici prese in giro, facevano passare l’idea di “falsi di falsi”: i mezzi d’informazione nazionali, formalmente una controparte dei poteri forti a tutela dei cittadini, erano in realtà un’espressione mascherata, e a guardar bene ridicola, delle istituzioni che avrebbero dovuto controllare e all’occorrenza biasimare. Far passare il messaggio con armi così immediate come quelle della satira spiazzò e irritò più del previsto.

Ma i “falsi” non erano niente. Ascoltando Sparagna, Mannelli e (ex) soci, il pubblico veneziano, come se fossero passati quattro secoli e non quarant’anni, era incredulo davanti a ciò che una rivista in grado di vendere 150mila copie a numero si permetteva di fare negli anni più bui della Prima Repubblica. La prima copertina di Il Male, con il titolo “La misura è colma”, ritraeva un vaso da notte pieno di feci, decorato con le facce di Berlinguer, Andreotti, La Malfa. Un’altra copertina raffigurava Andreotti nell’atto di sodomizzare la Giustizia. Un’altra ancora – titolo d’autore “Er padre de li santi” – fu forse la più estrema: il volto di Aldo Moro era disegnato da Pino Zac come un organo genitale maschile, e accanto al disegno l’omonimo sonetto del Belli con il cognome del parodiato al posto della parola “cazzo” (”er Moro se po di’ radica, uccello, cicio…”).

All’interno del numero spiccava un esercizio di chiromanzia in cui Tersite (pseudonimo di Sparagna) raccontava di una lettura della mano di Aldo Moro da cui si presagiva per il Presidente della Dc il carcere e una brutta fine. Non proprio roba leggera. Ma ecco che uno scherzo del destino fece esplodere oltremisura la carica eversiva di quel numero: a pochi giorni dall’uscita, Moro fu rapito dalle Brigate rosse. Alcuni collaboratori del Male (che odiavano le Br quanto il compromesso storico) finirono in questura sospettati di aver avuto informazioni in anteprima dai terroristi. Non si contarono le querele, i guai giudiziari e le difficoltà economiche per Il Male, e molte riviste successive non ebbero vita facile. “Sto ancora pagando”, risponde ridendo amaramente a chi glielo domanda Vincenzo Sparagna, che oltre ad aver fatto nascere Cannibale e Frigidaire, del Male fu direttore responsabile dopo che Zac andò via.

Oggi, dopo che il politicamente corretto è stato il bromuro quotidiano nella minestra della Sinistra – e il politicamente scorretto il randello con cui la Destra esorcizza un’invidia penis sempre più imbarazzante – può sembrare impossibile che certe armi retoriche fossero usate senza creare scandalo anche tra i lettori. Specie l’ex ceto medio riflessivo che insorge se qualcuno in tv dà del rabbino a qualcun altro per sottolinearne l’avarizia – o se dice di aver “lavorato come un negro”, seguono scuse alle associazioni antirazziste; perfino di aver “lavorato come un ciuco”, seguono scuse alle associazioni per la sindacalizzazione degli animali da soma – e poi, con passione da volenteroso carnefice, contribuisce alla gogna mediatica di uno showman che investe un pedone con lo scooter senza che ci scappi il morto.

Ancora più strano può sembrare che l’irriverenza di certa satira si sia spinta fino agli anni Novanta. Perfino Cuore – giornale su cui quel ceto medio si riconobbe da giovane, credendosi più spericolato e anticonformista di quanto non fosse – pubblicava vignette che oggi scatenerebbero come minimo un’interpellanza parlamentare. Cuore fu per parecchio tempo l’inserto satirico dell’Unità. Eppure, quando nel 1993 Raul Gardini si suicidò a pochi giorni da Gabriele Cagliari, la rivista non si fece scrupoli a titolare “E la barca tornò sola. Raul Gardini eterno secondo: Cagliari lo beffa all’ultima boa”. L’allusione era alle avventure velistiche di Gardini, che aveva mancato di un soffio la vittoria all’America’s Cup. E ancora, tra i “motivi per cui vale la pena vivere” nel Giudizio universale di Cuore comparivano senza imbarazzo voci come “la droga” o “Craxi che fa il pissing su Martelli”.

Non bisogna credere che quel tipo di satira – nonostante l’ultima incarnazione di Cuore venerasse un po’ troppo il pantheon culturale del Pds per essere davvero anarchica – se la prendesse solo coi potenti. Resta celebre una vignetta di Andrea Pazienza (siamo nel periodo di Zut e Tango) che ritraeva un metalmeccanico piegato a novanta gradi con lo sguardo sorridente e un cambio d’automobile infilato nel posteriore, titolo: “Gli operai Fiat hanno il cazzinculo di serie (cazzinculo® è un brevetto Fiat)”. Si biasimava in quel caso l’eccessiva arrendevolezza dei lavoratori davanti alla dirigenza, nonché l’oscura fascinazione che non pochi di loro nutrivano per gli Agnelli, uno degli eterni rimossi della lotta di classe all’italiana. La base non gradì, e non lo fece la parte istituzionale di Pci e Cgil che dalla santificazione degli operai traeva forza per sé stessa.

Deridere il suicidio di Gardini. La faccia di Berlinguer su un vaso da notte. Moro sbertucciato sia da vivo sia da morto. Il papa nudo. Le guance di Andreotti gonfiate fino a ottenerne un culo (titolo: “Con che faccia si è ripresentato?”). La violenza degli attacchi di Zac e soci – oltre ai nomi già citati, nel Male transitarono Vauro, Jacopo Fo, Angese; così come, oltre a Pazienza, non si possono dimenticare Stefano Tamburini, Tanino Liberatore, Filippo Scozzari, Massimo Mattioli nella brigata di Frigidaire – può apparire eccessiva. Non dimentichiamo però che a essere presa di mira era una classe politica e dirigente sospettata di avere collusioni con la mafia, con i servizi segreti deviati, di aver contribuito a depistare le indagini sulle stragi di Stato, di baciare anelli cardinalizi sporchi di sangue e denaro riciclato, di aver rubato, tradito e magari commissionato omicidi.

Un altro campionato

E oggi? Come mai, già spuntate in epoca berlusconiana, le armi della satira ci appaiono alla stregua di buffetti o al limite di scherzi vagamente fastidiosi per il potere, se paragonate a ciò che succedeva allora? È questa la domanda che ho rivolto a Sparagna, Mannelli, Vincino e Zarroli a un certo punto dell’incontro veneziano. Non volevo che la serata si riducesse a un amarcord.

“Il problema è che ciò che oggi comunemente chiamiamo satira, semplicemente, non è tale”, mi hanno risposto all’unisono. “Rispetto il lavoro di uno come Maurizio Crozza”, ha continuato Mannelli, “tecnicamente è molto bravo. Solo, come dire… è un altro campionato. Lì al massimo si tratta di umorismo. Siamo nel campo dell’accettabile”. Laddove proprio l’inaccettabile era il marchio di fabbrica di giornali come Il Male. Se il Gasparri o il Renzi o il Larussa o il Vendola o la Santanchè di turno, per quanto feriti nell’arroganza, possono ridere con Crozza quando sono presenti in trasmissione mentre lui li prende in giro, per Andreotti era semplicemente inconcepibile anche solo far finta di dar di gomito alla propria faccia disegnata come un culo, o a La Malfa e Berlinguer in quanto rappresentati come contenitori di merda fumante, o ai sodali di Gardini davanti alla derisione del suo suicidio.

“È per questo che in tv mi rifiutavo di fare il comico che prendeva in giro i politici”, ebbe a dire Massimo Troisi durante gli ultimi anni della sua vita, “perché se ti limiti a dire che Andreotti è gobbo e Fanfani è corto rischi di fare il loro gioco. Ti metti la coscienza a posto e aiuti la Dc ad apparire più democratica solo perché ti fa passare le battute. Se me lo facevano fare, significava che era innocuo, addirittura necessario a quel tipo di potere. Se un regime ti permette di giocare, significa che ci guadagna qualcosa. Le cose inaccettabili avrei potuto dirle a teatro, con un pubblico ridotto, e forse non farlo fu un errore. In tv avrei potuto fare il comico ufficiale. Me ne sarei vergognato”.

“Il problema…”, ha continuato sempre più coraggiosamente Mannelli, questo disegnatore che ammiro sin da quando ero ragazzo, almeno quanto da ragazzo ammiravo il coraggio e lo spirito di iniziativa di uno come Sparagna, “il problema è che a noi ci hanno rovinato i grandi giornali. La stampa istituzionale. Avanti, ammettiamolo! Vincino, non dirmi che sul Foglio sei incisivo quanto lo eri sul Male. E del resto io stesso… non è che quando disegno su Repubblica faccio le cose che mi permettevo di fare ai tempi di Zac. Anche sul Fatto Quotidiano… nemmeno lì sono così incisivo, se proprio lo devo dire. Sui giornali è tutto depotenziato”.

“E lo vieni a dire a me! A me che ho sempre lavorato per la stampa indipendente!”, è stata la reazione di Sparagna, che comunque – e questo è il bello di Sparagna – mentre protestava non smetteva mai di sorridere sornione. “Sei comunque meno influente di allora. Anche diventare di nicchia può essere una colpa”. “Ma come!”, è intervenuto Vincino, “vuoi dire che quando oggi disegniamo sui giornali, non abbiamo la libertà che ci serve?”.

E Mannelli: “Anche se avessi tutta la libertà che mi serve, e magari a volte ce l’ho, è il contenitore che determina il messaggio. Si chiami Repubblica, o Corriere della Sera o Foglio o Fatto Quotidiano… sono loro a dettare il menu, le priorità, a fare da cornice, a metterti in un contesto che per forza di cose già spinge da una parte o dall’altra la vignetta che tu hai appena disegnato. Quella vignetta lì, che tu lo voglia o meno, inizia a prendere la forma del giornale che la ospita, a sposarne le battaglie, a seguirne suo malgrado la direzione. Nella stampa istituzionale siamo tollerati. Al limite siamo degli ospiti. E, come tali, sovrastati dalle regole del padrone di casa”. Già, la stampa. E la televisione: come non pensare a Vauro che quasi diventò una star ad Annozero?

Il discorso ufficiale, che all’occorrenza ospita i protagonisti della satira – siano bravi disegnatori, bravi imitatori, bravi attori di teatro –, rischia di convertire ai propri codici anche ciò che dovrebbe risultargli indigeribile. Un primo aspetto del discorso riguarda proprio questo. E un secondo, molto più problematico, riguarda la presunta efficacia, per il 2015, di ciò che funzionava nel 1977.

Ma cominciamo dai giornali. I giornali, in Italia, non hanno mai sofferto una crisi di credibilità e di lettori come quella degli ultimi anni. L’arrivo di Internet è stato esiziale di per sé, ma ha anche infilato il dito in piaghe che ci avrebbero messo più tempo a sanguinare. Non conosco nessuno che ami davvero il quotidiano che legge abitualmente e compra ancora meno.

Un giornalismo brutto e necessario

Ai quotidiani ormai le persone si avvicinano come fanno con i partiti politici. Un male necessario. La sensazione è che si turino il naso rassegnandosi a votare (pardon, acquistare) il meno peggio, al quale riconoscono una vaghissima corrispondenza di vedute con le proprie, e per il resto l’obbedienza a un mandato che non è quello dei lettori. Chi lavora nei giornali (specie gli under cinquanta) avverte con chiarezza questa disaffezione, e ne soffre, non di rado ne capisce le ragioni; lì sono brutti quarti d’ora tra la scrivania e il distributore del caffè, perché si arriva a temere di stare sprecando gli anni migliori della vita. I più cinici si consolano pensando di essere comunque al servizio di un potere forte.

In effetti certi quotidiani un potere vero riescono ancora a esercitarlo. Possono contribuire a far cadere governi, rovinare o promuovere carriere, dare notizie in anteprima, sollevare temi che saranno discussi a livello nazionale, agitare l’opinione pubblica, intervistare politici e persone famose. Solo, c’è la sensazione che lo facciano a tutela crescente del loro decrescente potere. Non pochi lettori se ne accorgono, e li leggono come guarderebbero in tv una rissa tra sottosegretari o una puntata di Amici: lo spettacolo è involuto, ma su quel palcoscenico si decide qualcosa di importante, perlomeno nell’Italia del discorso ufficiale.

Se il contesto è questo, è comprensibile che l’esperimento di Piero Ottone, il direttore del Corriere della Sera che nel 1973 chiamò Pier Paolo Pasolini a scrivere articoli che remavano contro la linea editoriale del giornale, oggi sia fantascienza. Eppure offrire a un intellettuale (a un artista, a un comico, a un eretico di genio) il ruolo di “ospite ingrato” è sempre un esercizio di vitalità, rende le pagine che lo accolgono più interessanti e meno prevedibili, solleva dibattiti non strumentali, è probabile che paghi perfino in termini di vendite. Invece, i giornali sembrano oggi dei vecchi ministeri paralizzati dal loro stesso intreccio di poteri, sanno in che direzione sarebbe l’uscita dall’obsolescenza ma gli è impossibile imboccarla. Tuttavia, poiché il ruolo esercitato dai mezzi d’informazione istituzionali non ha ancora alternative di peso, questo tipo di giornalismo è al tempo stesso brutto e necessario, moribondo e condannato a non poter crollare.

Si capisce, in spazi simili, quale ruolo possa avere la satira. Non solo la satira tout court, ma un qualunque esercizio di intelligenza in forma disegnata o scritta che (usando le armi della creatività, dell’invenzione, del paradosso) sia disposta a muoversi sopra le righe per urticare a fin di bene. Per questo le parole di Mannelli, quella sera, sono state ciò che di più onesto si poteva dire. Con una differenza, però, tra Destra e Sinistra. Sui giornali anche latamente di Sinistra – o comunque non di Destra dichiarata – si ha sempre l’impressione che ai collaboratori più anticonformisti si chieda di lavorare al 20 per cento del proprio talento. La dittatura del politicamente corretto come veste rispettabile per il cinismo. Angoli smussati, e alzate d’ingegno piegate alle esigenze del giornale (cioè al suo potere, alle battaglie politiche o ideologiche del momento).

Il risultato è la riduzione alla normalità di talenti che, in cambio di una visibilità anche legittimamente desiderata, finiscono stritolati nella macchina. Fai per scrivere o disegnare una cosa. Ti fanno intendere che non è il caso, o il narcisismo intuisce in quel contesto scorciatoie più vantaggiose. Così ne scrivi o ne disegni un’altra quasi identica, ed è la fila di quei quasi a fare massa nel tempo. A un certo punto il “quasi” diventa qualcosa a cui finisci per credere davvero, credi di essere tu e infatti lo sei diventato: il tribuno dell’ovvio. Quante penne (e pennarelli) abbiamo visto spegnersi così? Certo, qualcuno ogni tanto è così saggio, talentuoso e consapevole da salvarsi, ma gli Altan si contano sulla punta delle dita.

Se a Sinistra i talenti sopra le righe sono a volte imbottiti di bromuro, a Destra rischiano di diventare pura violenza, cioè zero talento. Le conseguenze della sconcertante – e devo dire, perfino comica – invidia penis di cui parlavo prima. Quando si tratta di cultura, è incredibile la venerazione che i giornali di Destra hanno per i guru della Sinistra. Ricordo un attacco di Luigi Mascheroni a Giulio Einaudi talmente circostanziato e ricco di particolari da sfiorare l’idolatria. Fateci caso, nelle pagine culturali di tanti giornali di Destra il nome “Umberto Eco” ha ogni anno più occorrenze di “William Shakespeare”, il nome “Roberto Benigni” più di “Charlie Chaplin”, il nome “Nanni Moretti” più di “Stanley Kubrick”.

Una sofferenza senza balsami

Ovviamente questi nomi sono evocati solo per essere denigrati, e altrettanto ovviamente sono ingiuriati con una ricorsività che ricorda l’ossessione di certe innamorate tradite senza il ricordo di una notte di passione a fare da balsamo. Il problema è che nonostante le risorse, gli spazi, i grandi sforzi, la cultura di Destra non è riuscita in trent’anni a far nascere un regista, uno scrittore, un comico, un vignettista, un cantante, un gruppo musicale che andasse oltre la soglia del dilettantismo. Ad avere lettori, spettatori, ascoltatori, a godere del successo, a essere acclamati oltreconfine – dove lo scontro politico nostrano desta poco interesse, e quindi nessun alibi – sono sempre gli altri. Riconoscere talento agli avversari che ci si è scelti e niente per sé stessi senza poterlo confessare genera sofferenza. La migliore via di fuga per non scontrarsi con un certo tipo di dolore è diventare violenti. Se non è questo, è la vecchia esigenza di costruirsi un nemico rispetto a cui essere parassitari: se non c’è lui, non esisti più nemmeno tu.

Ecco allora che una parte della cultura di Destra sembrerebbe avere a che fare con la satira. È urticante, come certa satira. Irriverente, come la cultura di Sinistra non è più. In certi casi perfino inaccettabile, come Il Male nel 1977. Solo: anziché colpire un potere che detesta, soffre un tremendo complesso di inferiorità verso l’oggetto dei suoi attacchi, al quale oggetto il talento ha fatto guadagnare potere e un po’ di soldi, potere e soldi che magari sono conservati ricorrendo a qualche compromesso. Chi attacca a testa bassa dichiara di attaccare il potere o il compromesso, ma è il talento che soffre. È quello che non lo fa dormire. Vorrebbe essere al posto del denigrato (non nel posto di potere ma nel corpo del talento, perché una certa nobiltà nella miseria bisogna riconoscerla), e usa ridicolmente l’ideologia (i comunisti! i comunisti con la barca!) come foglia di fico. In alternativa, odia sé stesso e attacca nel denigrato il proprio essere parassitario.

Il talento, però, nei contesti che lo intercettano, abbiamo detto che rischia sempre più spesso di essere spinto nelle secche dell’accettabilità. Reso innocuo o autoreferenziale. All’improvviso non c’è più un fuori. È il caso di molti comici in tv. Ma anche di tanti disegnatori, intellettuali, registi che usano le armi dell’umorismo per dar forma alle proprie urgenze. Mi spiace prendermela con Crozza perché è davvero bravissimo a fare ciò che fa. Tempi, testi, interpretazione. Nel suo campo è probabilmente il migliore. Il successo è meritato, il talento invidiabile. Glielo riconosco. Immagino il lavoro che dev’esserci dietro. Magari in Italia tutti quelli che si dicono professionisti di qualcosa lavorassero a quel modo! Ma proprio perché Crozza è il simbolo di un certo tipo di linguaggio, il campione del genere e un caposcuola, credo di poter usare il suo caso come pietra miliare per un discorso più vasto. Il problema dell’umorismo di Crozza è di essere nichilista. Quando guardo i suoi sketch in tv mi convinco che il mondo, fosse davvero ridotto a quei codici linguistici, non avrebbe speranza di cambiare neanche aspettando dieci secoli. È la rappresentazione di un mondo eterno. Un mondo che promette anche a noi: “Non morirete mai”. In compenso, resteremo imprigionati in un eterno presente popolato da maschere di vip che distorcono, fino all’esasperazione – in modo arguto, paradossale, intelligente – l’unico linguaggio contemplabile: quello dei mezzi di comunicazione. Non esiste insomma un fuori, nella narrazione di Crozza.

Le particelle elementari del discorso sono quelle dell’universo mediatico. Si tratta ancora del discorso ufficiale, smontato e riassemblato in modo da rendersi ridicolo, ma sempre dei vestiti vecchi dell’imperatore si tratta, un ologramma separato dal mondo vero quanto lo è uno spettacolo televisivo (o una pagina di cronaca, l’editoriale di un grosso quotidiano) dalle vite profonde delle persone che lo guardano. Queste vite così scabre, strane, assurde, scandalose, sporche, imprevedibili… Le vite reali, quelle da cui nascono le grandi maschere della comicità. L’umorismo perpetrato usando i codici dei mass media è davvero – come dice Mannelli – un altro campionato. Se dici al re che è un cretino usando lo stesso linguaggio con cui il sovrano si autorappresenta, stai in fondo affermando che quella messa in scena è l’unica possibile. La testa del re magari un giorno rotolerà, ma non si può uscire linguisticamente vivi dal reame. Laddove, al contrario, prigionieri del reame nello status di cittadini, da nudi esseri umani parliamo sempre un’altra lingua.

L’impunità senza fascino

Il problema di Crozza è di essere, in definitiva, un umorista postmoderno di Sinistra e non un comico. Lo stesso vale per gli umoristi che – nei film, nei libri, nei fumetti, nelle canzoni – mettono in scena tic e ridicolaggini dei potenti o della gente comune usando la lingua della “comunicazione”, vale a dire il codice monodimensionale che persuade il potente di essere migliore rispetto a chi il potere non ce l’ha, persuade il re – ossia la nostra parte morta, come fredda e rigida, per quanto necessaria, è la mano che comanda – di essere immortale. Eppure perfino il re, quando non porta la corona, fosse anche di notte, mentre sogna addormentato, parla una lingua che non è quella del re. Come dicevo, credo sia scatenata dal comico, non dall’umorismo, la risata in grado di salvarci.

Che cosa dovrebbe allora ipoteticamente fare Crozza, o chi per lui (davvero, niente di personale), per entrare eventualmente nella sfera del comico? Dovrebbe rileggersi tutti i numeri del Male? Dovrebbe andare a lezione da Daniele Luttazzi? Dovrebbe sputare, ingiuriare, bestemmiare? Dovrebbe dire e fare cose finalmente inaccettabili? No, credo di no. Non nei primi anni del ventunesimo secolo. Ed è questo il problema. Da vecchio fan di un certo tipo di satira mi costa dirlo, ma non credo che ripetere le imprese estreme di Pino Zac e soci sia oggi la strada da percorrere. Anche perché quel tipo di violenza, di irriverenza, di spietatezza – sia pure con dinamiche e meccanismi emotivi molto diversi – si è trasferito altrove. Vale a dire in Rete.

Se volete vedere il presidente del consiglio insultato pubblicamente, o il papa vilipeso con la totale assenza di tabù che per i redattori del Male era ogni volta una sfida e uno sforzo creativo (infrangiamo il tabù? Fino a che punto? E in che modo, questa volta?) fatevi un giro online, specie tra i social media. Ci troverete contenuti e segnalazioni interessanti, ma anche lo sfogatoio che tutti stiamo imparando a conoscere. Una violenza che se da una parte illude di vendicare i misfatti, dall’altra getta la spugna su ciò che ha fatto passare alla storia Il Male e Frigidaire: vale a dire il talento (senza un filtro editoriale non si seleziona Andrea Pazienza tra mille imbrattafogli), il lavoro (fondare una rivista satirica significava saperla immaginare nonché saper trovare soldi e bravi collaboratori, un tipo di ingegno la cui ricaduta creativa esplodeva sulla pagina) ed essere disposti a pagare per la propria irriverenza (gli autori di satira temprati dal rischio del mestiere avevano un fascino che la quasi totale impunità garantita dalla Rete fa scomparire all’istante).

Facebook e Twitter sarebbero diventati il regno della satira 2.0. In qualche caso, c’è del talento autentico. La merce più spacciata è, tuttavia, un sarcasmo a basso costo che dice tutto di chi la satira la esercita e niente dei suoi bersagli. Quel tutto è una miscela letale ottenuta con il peggio delle culture politiche che dominano il discorso ufficiale italiano degli ultimi anni. Il conformismo bacchettone di un certo Pd, unito alla violenza della macchina del fango brevettata dal Popolo della Libertà, unito al giustizialismo cieco del peggior Movimento Cinque Stelle, unito al razzismo (se non verso un gruppo etnico, verso una categoria sociale) della Lega, unito all’assurdo sentimento di superiorità etica della Sinistra radicale. Il risultato è sconcertante: un benpensante isterico armato di napalm che desidera notorietà, consenso (se non affetto!) per le stragi virtuali che riesce a compiere convinto di uccidere per una buona causa. Il risultato è sofferenza e frustrazione con sottofondo di risatine da iena del pubblico non pagante, che tutto insieme non sposta di mezza virgola gli equilibri del contesto in cui si svolge la corrida, figuriamoci quelli del mondo reale.

Infine, pensateci: anche l’alfabeto dei troll e dei lapidatori telematici (il nostro codice emotivo quando facciamo emergere il mister Hyde o l’incredibile Hulk 2.0 che ci portiamo dentro) appartiene al discorso ufficiale di cui scrivevo prima. Non si esce dalla macchina, se non se ne vuole uscire. Che spazio resta dunque oggi in Italia per l’esercizio sacrosanto del sentimento del contrario? Se l’accettabile è castrante e l’inaccettabile stupidamente distruttivo, dove possiamo ricominciare a ridere davvero? L’ho già detto: nella comicità. In qualcosa, vale a dire, che viene sempre da fuori.

“Io so a memoria la miseria, e la miseria è il copione della vera comicità. Non si può far ridere, se non si conoscono bene il dolore, la fame, il freddo, l’amore senza speranza… e la vergogna dei pantaloni sfondati, il desiderio di un caffelatte, la prepotenza esosa degli impresari, la cattiveria del pubblico senza educazione. Insomma non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita”. La dichiarazione di poetica, peraltro molto nota, appartiene a Totò.

E Roberto Benigni, sempre su Totò, nel corso di un’intervista rilasciata a Paolo Bonolis nel 2006, rende il concetto ancora più chiaro: “Il comico, a differenza del tragico, è crudele, perché il tragico ci mostra la grandezza dell’uomo, mentre il comico ci mostra le piccolezze, la miseria, proprio che siamo esseri sciocchi, vulnerabili e ridicoli. I veri comici sono rarissimi. Ci sono tanti attori brillanti, ma i comici come Charlie Chaplin, Keaton, Stanlio e Ollio o Eduardo nella sua grandezza da presepe, veramente rarissimi. Totò nasce dalla miseria (…). Il vero comico è quello che va nelle frontiere sconosciute, che va nelle zone a rischio, dove nessuno ha mai osato e lui era uno che osava dappertutto. La grandezza di Totò è che dietro aveva la morte. Totò era uno scheletro. Nei primi film come Totò le Mokò, bastava che si scansasse un attimo e dietro di lui c’erano cinquanta morti di fame di Napoli, tutti gli scheletri dei morti di fame del mondo. Per quello era inquietante, perché le cose che ti divertono non sono solo quelle che ti fanno ridere, ma quelle che ti abitano, che ti restano dentro, che ti smuovono una parte e ti fanno capire chi sei (…). Totò era così: la grandezza della morte nella risata”.

L’ho fatto dire a loro perché non avrei saputo scriverlo meglio. Il comico ha dunque a che fare con il grande rimosso del discorso ufficiale. Può capitare che salga sui palcoscenici, che riempia qualche colonna di quotidiano, che compaia sugli schermi televisivi, ma viene da territori che con quei codici hanno poco a che fare. Non nasce e muore nel discorso del re. Al massimo, non invitato, in quel discorso ci irrompe. La sua è una presenza clandestina, perturbante. Il comico non sfida il potere con la lingua del potere. Usa talmente un’altra lingua che il potere, davanti a lui, non sa mai bene cosa fare. Si confonde. Si smarrisce. Per uno strano sortilegio, non gli è dato di toccarlo. Poi ognuno torna sulla propria strada, ma l’uomo che si è fatto toccare dal comico è salvo. Totò. Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Il Roberto Benigni di Berlinguer ti voglio bene. Carmelo Bene con la finta barba da prete in Nostra Signora dei turchi. Paolo Villaggio con la maschera di Fantozzi. Cinico tv e Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco. I migliori spettacoli di Antonio Rezza…

Una montagna umana

Gli esempi non sono pochi. E se chi cerca una risata salvifica si guardasse intorno, se sollevasse gli occhi dal giornale che sta leggendo, o dallo schermo in cui aspira a entrare da protagonista, scoprirebbe nel 2015 un’Italia completamente altra. La scopriremmo noi, che pure ce l’abbiamo a pochi metri. Per le strade delle nostre città, nelle stazioni quando scende la sera, dentro i locali notturni, tra i banchi dei mercati, sulle spiagge, ai semafori, nei luoghi di lavoro, negli ospedali all’alba, negli istituti psichiatrici, nelle prigioni dopo la fine dell’ora d’aria, nelle cucine degli alberghi, nelle piccole portinerie dei grandi condomini, sui treni, nella polvere dei cantieri, sulle giostrine dei parchi pubblici, nelle sale bingo e nelle sale scommesse, nei circoli per anziani, nei bagni delle stazioni di servizio, nelle scuole elementari, ai piedi dei grandi monumenti, nella realtà e perfino nella noia degli studi televisivi impegnati a confezionare un prodotto irreale… Là fuori si ride a crepapelle. Belluno, Sora, Cattolica, Triggiano. L’Italia è assai più vasta di quanto la nostra stupida filosofia sospetti.

Ci sono giacimenti che chi non ha occhi per vedere non mette a fuoco. Una montagna umana continua a emergere dal ventre della terra: basterebbe sentire il tintinnio delle tazzine da caffè in fondo a un bar della provincia avellinese o trevigiana per sapere che è appena cresciuta di un altro mezzo metro. Ma la montagna è alle spalle. Non cercatela sui giornali, perché non la troverete. Allora basta voltarsi. Eccoli gli uomini! I cari scheletri danzanti. Ecco dov’erano finiti… Ci sono facce, nel 2015, di cui chi nasce e muore nel discorso ufficiale non sospetta l’esistenza, scambi di battute da morir dal ridere (morir dal ridere) che non solo non trovate voi perdendo tempo su Internet, ma non trovano intere squadre di autori pagati per farlo, barricati da giorni nell’ufficio messo a disposizione dalla produzione per spremersi dalle meningi uno straccio di script a beneficio del comico televisivo con cui lavorano. Mentre qui dentro tutto congiura per farci credere che la morte non esiste, fuori si lotta comicamente per la vita tutto il tempo. Ed è là fuori, nel selvaggio dolore di essere uomini, che bisogna tornare se oltre che a ridere si vuole ricominciare a vivere.

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