Con “Signs” Shyamalan ci ha raccontato le conseguenze dell’11 settembre

di Giulio Zoppello (wired.it, 2 agosto 2022)

Parlare di Signs di M. Night Shyamalan significa riabbracciare il film di uno dei registi più divisivi che si ricordino nel panorama cinematografico moderno. Le sue opere sono sempre state indicate o come dei passi falsi clamorosi, oppure salutate come una ventata di novità, fantasia e originalità. Shyamalan ha saputo illuminare più di una volta il grande schermo con opere di grande bellezza e profondità. Signs è senza ombra di dubbio uno degli sci-fi migliori del XXI secolo, ma più ancora una metafora assolutamente perfetta per parlarci del trauma dell’11 settembre e, soprattutto, di come l’America ne è uscita. E, si badi bene, che tale processo, come sappiamo, non ha avuto un risultato positivo e fu proprio lui, vent’anni fa, ad anticiparlo tra le righe di questa narrazione affascinante.

The Walt Disney Company

Signs arrivò subito dopo Unbreakable, uno dei film sui supereroi più profondi e interessanti mai concepiti, all’epoca non pienamente compreso, ma oggi giustamente indicato come un cult assoluto del genere (al contrario del suo sequel Glass). Lo stesso si può dire oggi di questo riuscitissimo mix tra un horror, un thriller e uno sci-fi, ambientato in una piccola comunità agraria della Pennsylvania. Lì, in una fattoria, vive l’ex prete episcopale Graham Hess (un Mel Gibson in forma strepitosa), da poco vedovo, assieme al fratello Merrill (Joaquin Phoenix) e ai figli Morgan (Rory Culkin) e Bo (Abigail Breslin). Assieme ai passi invisibili dei visitatori ostili, si materializza una paura che non ha un volto, è fatta di rumori persi tra il vento o in quei giganteschi campi di grano dove Hess e la sua famiglia capiscono che non sono più soli. Il soprannaturale prende a poco a poco il posto della razionalità, mentre Shyamalan ci parla di una ricerca della logica che si arrende all’inspiegabile.

Si tratta del resto di uno dei grandi topoi della sua narrazione, concentrata sull’ignoto, sulla mancanza di certezze e sulla lotta dell’essere umano per arrivare ad una verità che sovente è totalmente diversa da quella che si aspettava e ben poco consolatoria. Signs, da questo punto di vista, può essere definito probabilmente il suo film migliore, o se non altro quello in cui tali tematiche sono forse maggiormente connesse ad un preciso momento storico. Sì, lo so cosa state per dire: che è The Village la sua grande metafora sociale e politica, sull’America che ha perso sé stessa e si è chiusa al mondo esterno durante la guerra al terrore. E se invece non fosse così? Signs possiede una struttura diegetica semplicemente perfetta per ricordarci cosa avevamo provato quel giorno di settembre di fronte al televisore o alla radio mentre vedevamo il mondo cambiare completamente, abbracciare tragicamente qualcosa che pensavamo fosse possibile solo nei film d’azione o nei fumetti.

Signs si rifà a tutta una certa narrativa fantascientifica degli anni Cinquanta e Sessanta, un corposo mondo fatto di film, serie tv, comics e romanzi, strizzando soprattutto l’occhio a La Guerra dei Mondi. Non parliamo del romanzo di Herbert George Wells in senso stretto, ma soprattutto dell’impatto che ebbe lo sceneggiato radiofonico del grande Orson Welles nel 1938. Oggi possiamo anche ridere del panico che la Cbs suscitò in gran parte dell’America a quel tempo, parlando di un’invasione aliena come fosse in diretta. Ma la realtà è che dobbiamo riconoscere che ancora oggi, se ci ricordiamo esattamente dove eravamo quando gli aerei colpirono il World Trade Center, è perché abbiamo provato le stesse sensazioni: incredulità, panico, smarrimento, perdita di sicurezza, per non parlare dello spaesamento di fronte all’impossibile che si materializzava in diretta televisiva.

“Potrai dire ai tuoi figli che c’eri” spiega Morgan alla sorellina Bo, e molti di noi oggi, vent’anni dopo quel giorno, spesso lo hanno fatto, se non altro per far capire cosa divide col sangue Oriente e Occidente. Internet già nel 2001 aveva la stessa funzione del vhs che Morgan usa per registrare gli alieni in volo: l’archivio dedicato ad un evento storico, globale. Le Torri di New York che cadono sono tra le immagini più potenti della nostra storia, ma più ancora rappresentano qualcosa che non pensavamo avremmo mai visto se non nella finzione. Graham e la sua famiglia però sono completamente soli, come lo eravamo noi, come lo era ogni americano quel giorno, che vide scomparire sotto i propri piedi il concetto di collettività, disintegrato dal terrore dell’ignoto.

La meraviglia va di pari passo con la paura, con la fantasia che diventa una trappola per la mente umana, fonte di incubi e incertezze, fino alla rivelazione finale, che è soprattutto una tesi filosofica, teologica, più che un happy end. Signs ci mostra la morte della moglie di Graham, le sue ultime parole al marito prima di spirare sul cofano della macchina che l’ha uccisa: “Dì a Merrill di colpire forte…”. Shyamalan, anche grazie ad una colonna sonora pazzesca di James Newton Howard, rende quel finale, la lotta con il mostruoso alieno in sala da pranzo, una tesi sul concetto di destino, anzi di predeterminismo religioso, sul fatto che tutto accade per una ragione nella vita. Affiorano i legami con la psicoanalisi, con l’acqua che è mondo interiore, simbolo femminile e della vita che a Graham e a Merrill serve per sconfigge i propri demoni interiori, rappresentati da quel mostro verde. Ma, soprattutto, emerge la volontà dell’America di quel periodo di reagire, aggrappandosi non alla logica o alla scienza, ma ai valori, agli ideali ancestrali dei padri fondatori per combattere il terrore di essere preda di un qualcosa di esterno e alieno.

L’America uscita dagli ottimisti anni Novanta già intuiva prima dei kamikaze nel cielo di settembre che qualcosa si era rotto, si era guastato, il sogno si era già fermato. Shyamalan ci mostrò qui quell’America che cercava la riscossa e un ritorno, e lo otteneva in uno scenario da incubo, un’America bianca, fatta di religione, famiglia tradizionale, con un concetto di legge molto personale, che ama il baseball e da sempre vive nella paura che i grandi spazi rendono immortale nel buio della notte. Si tratta dell’America che spesso strizzerà poi l’occhio al complottismo, al populismo, ma soprattutto al primato della religiosità più generica e sfumata sulla ragione, sulla scienza. Qualcosa che mai ci saremmo aspettati da un film sugli alieni, e di certo un altro elemento che conferma la straordinaria potenza che ancora oggi questo film esercita.

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