di Andrea Costanzo (linkiesta.it, 1° febbraio 2020)
A chi gli chiede un aneddoto divertente sul suo passato, spesso Recep Tayyip Erdogan racconta di quando, poco più che ventenne, fu a un passo dal giocare per la sua squadra del cuore, il Fenerbahçe. Erdogan sostiene che il suo acquisto sfumò all’ultimo istante, quando il club decise di cambiare guida tecnica e il nuovo allenatore disse di non essere interessato a quel giovanotto così devoto da essere soprannominato dai compagni di squadra hoca, “insegnante di religione”.
È difficile stabilire se la storia sia vera. Di certo, però, c’è la passione calcistica di Erdogan, un amore smisurato che il presidente turco condivide con milioni di connazionali e che negli ultimi anni ha modificato l’agenda politica del suo partito, l’Akp. Non solo perché gli ultras delle tre principali squadre di Istanbul (Galatasaray, Fenerbahçe e Beşiktaş) sono tra i grattacapi più seri di Ankara, che fatica a tenerne sotto controllo le intemperanze anti-governative, ma anche perché in un Paese così innamorato del pallone il calcio è lo strumento ideale per entrare nella testa dell’elettorato. Per questo motivo, nel 2014, il Ministero dello Sport (su mandato di Erdogan) ha acquistato per poco più di cinque milioni di euro il semi-sconosciuto Başakşehir, appena promosso in Süper Lig, la prima divisione turca. Nel giro di qualche stagione, grazie al sostegno economico del governo, il club è entrato nell’élite del calcio turco chiudendo al secondo posto due degli ultimi tre campionati. Risultati inimmaginabili per una squadra che solo pochi anni fa giocava sui campi spelacchiati delle leghe minori e che oggi schiera vecchie star del calcio europeo come Robinho, Gaël Clichy e Martin Škrtel.
Per seguire, influenzare e controllare le masse, Erdogan non si è quindi limitato a silenziare i media o a imprigionare gli oppositori politici: il presidente turco ha deciso di completare l’opera ripartendo da quella zona di Istanbul – il sobborgo di Başakşehir, per l’appunto – che lui stesso aveva creato dal nulla nel 1994, quando era sindaco della città, e che oggi conta quasi mezzo milione di abitanti. Başakşehir è la “sede” della nuova identità nazionale turca, l’edificazione di un progetto condiviso da milioni di persone che dalle zone rurali del Paese sognavano di trasferirsi nella grande città. È il quartiere di quella piccola borghesia che per anni è stata la base elettorale di Erdogan, quella generazione di turchi che – spaventati dal secolarismo statale – chiedevano più spazio per l’Islam. A questa persone Erdogan ha letteralmente costruito una casa, tenendole allo stesso tempo lontane dai locali troppo occidentali del centro di Istanbul ma vicine ai suoi preziosi posti di lavoro. Negli anni il sobborgo è cresciuto e le esigenze dei suoi abitanti sono aumentate: a fianco dei grandi condomini sono così sorti centri commerciali, parchi e biblioteche. Nel 2014 è stato inaugurato anche un nuovo stadio da 17mila posti, il palcoscenico ideale per i rinnovati obiettivi del club governativo.
Non tutto, però, sembra essere andato per il verso giusto. Innanzitutto perché a Başakşehir il neosindaco di Istanbul, Ekrem Imamoğlu (nemico giurato di Erdogan) ha raccolto il 48% dei voti. In secondo luogo perché – nonostante gli sforzi economici e politici del governo – il club non è riuscito a far breccia nel cuore della gente, che continua a tifare per le “Big Three” di Istanbul. Lo stadio del Başakşehir è sempre mezzo vuoto, con un’affluenza media che non supera i 6mila spettatori, nonostante il club abbia provato a regalare i biglietti dei match casalinghi alle scuole della città per attirare le simpatie dei più giovani. I risultati della squadra continuano ad essere buoni (anche quest’anno il Başakşehir è in corsa per il titolo e si è qualificato per la fase ad eliminazione di Europa League), ma nessuno sembra credere davvero a un suo successo a fine stagione. La bacheca vuota non aiuta Erdogan, che solo qualche anno fa – durante l’inaugurazione del nuovo stadio – aveva definito la crescita del club una «rivoluzione calcistica».
In diciassette anni di governo Erdogan ha ridefinito la politica e la società turca, utilizzando ogni arma a sua disposizione per mantenerne il controllo. Per quasi un ventennio è sembrato imbattibile: negli ultimi mesi, però, l’elettorato turco ha cominciato a dare segni d’insofferenza, infastidito dai metodi sempre meno democratici del governo, arrabbiato per la difficile situazione economica e spaventato dalla pressione dei profughi siriani sui confini nazionali. In un contesto simile, Erdogan sembra aver nuovamente messo da parte le sue aspirazioni calcistiche. Dopo aver mancato la carriera da calciatore professionista, potrebbe dover presto dire addio anche a quella di proprietario di un club. Perché un conto è costruire dalle fondamenta un nuovo quartiere, un altro è far entrare nel cuore della gente una squadra di calcio.