di David Allegranti* (linkiesta.it, 6 novembre 2024)
L’arrivo di Donald Trump su Twitter è datato marzo 2009, quando Barack Obama è appena diventato presidente degli Stati Uniti. Rapidamente, diventa lo strumento preferito del miliardario americano. «La campagna presidenziale del 2016 potrebbe essere ricordata come quella in cui il populismo ha incontrato i social media digitali», scrivono Francisco Seoane Pérez et al. (2019, p. 13).
Trump avrebbe vinto senza Twitter? Lui è convinto di no, ma non esiste una controprova. Si può però constatare, per esempio, quanto siano stati rilevanti social media come Facebook e Twitter come fonte d’informazione per gli statunitensi durante la campagna elettorale. Il che fa capire anche quanta risonanza possa aver avuto un intervento manipolatorio effettuato su tali mezzi. Secondo un report del Pew Research Center nel 2016, il quarantaquattro per cento degli statunitensi adulti ha seguito le news sulla campagna elettorale sui social media e il ventiquattro per cento ha detto di aver letto post di Trump e Clinton.
Il giorno delle elezioni, l’8 novembre 2016, Trump aveva 12,9 milioni di follower, due in più dell’avversaria Hillary Clinton (10,2 milioni di follower). La differenza, in termini di engagement, era però più elevata, a vantaggio di Trump: il Pew Research Center ha analizzato, nel maggio del 2016, tre settimane di tweet e post dei candidati alle elezioni presidenziali. Trump twittava e postava con la stessa frequenza di Clinton o di Bernie Sanders, ricevendo però molta più attenzione da parte degli utenti. I tweet di Trump erano cinque volte più retwittati di quelli di Clinton, e il numero delle condivisioni su Facebook era otto volte più alto in Trump rispetto a Clinton.
Numeri che fanno guadagnare a Trump l’appellativo di «Commander-in-Tweet», secondo Klaus Kamps (2020). Colui che usa Twitter per veicolare ciò che Michael Silverstein chiama il «Messaggio» (Silverstein 2017), con la M maiuscola. Un messaggio che non necessariamente deve passare attraverso un testo scritto, ma che è fatto di simboli, immagini, riferimenti iconici. Come un brand. «Il messaggio in politica, come il marchio nel mercato più ovviamente commerciale, è quindi un composto semiotico, una narrazione o biografia distintiva (e quindi differenziale) proiettabile – di una figura politica non meno che di un prodotto o di un servizio – che, a prescindere dai fatti, situa l’immaginario del valore d’uso o della funzionalità in un cronotopo, uno spazio-tempo di relazione con gli individui del pubblico votante o del mercato dei consumatori», scrive Silverstein (2017, p. 408). […]
Il Messaggio di Trump è immediatamente riconoscibile, spendibile, resiste alla prova dei fatti e della verificabilità. Non c’è fact checking che possa resistere a un’idea condivisa da una base, da un pubblico di elettori che non si lascia convincere dagli avversari: «Make America Great Again». Non è importante che l’America alla fine sia tornata davvero grande; l’importante è che la gente – i seguaci – lo pensi, che gli elettori di Donald Trump continuino a pensarlo. Magari solleticati dalla continua comunicazione online del quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti.
[…] L’importanza dei social media in una campagna elettorale si era già rivelata centrale nelle elezioni presidenziali del 2008. Dopo la sfida fra Barack Obama e John McCain, infatti, non si è più tornati indietro e Twitter, nel 2016, anche a dispetto dei suoi fondatori, ideologicamente orientati altrove, è stata la voce di Trump. Il miliardario proletario si è messo a capo degli statunitensi della Rust Belt, quelli descritti dal candidato vicepresidente J.D. Vance nel saggio “Hillbilly Elegy”, nel quale l’attuale senatore del Partito Repubblicano, eletto grazie al sostegno di Trump, raccontava la sua storia di riscatto sociale.
L’accesso a una piattaforma di microblogging che imponeva l’uso di messaggi dai caratteri limitati ha democratizzato l’interazione fra popolo e politica. Da un certo punto di vista, ha notato Vann R. Newkirk II (2016) in un articolo su The Atlantic, Twitter ha anche trasferito il potere dei politici. Ed è per questo, notano Galen Stolee e Steve Caton (2018, p. 152), che «movimenti decentralizzati e antiestablishment come il Tea Party, la Alt-Right e Black Lives Matter», hanno prosperato su Twitter, essendo così in grado «di organizzare milioni di persone nel corso di migliaia di eventi pubblici e di rappresentare una vera sfida per i personaggi pubblici. Ma nel caso di Donald Trump, Twitter sembra essere stato uno dei fattori chiavi per la sua fulminea ascesa al potere, piuttosto che il mezzo per sfidare o togliere quel potere».
Trump, dunque, non ha usato la creatura di Jack Dorsey solo per contestare l’establishment; Twitter è diventato uno strumento di perseguimento del potere. L’ideologia linguistica, sociale e politica di Twitter è stata improntata, non solo sotto l’egida di Elon Musk, al più totale free speech. Alla libertà d’espressione e di pensiero. Almeno nelle intenzioni iniziali. Questo ha permesso a gruppi minoritari di avere accesso a un mezzo di comunicazione con centinaia di milioni di utenti e ha permesso loro di costruire una community, una base, in grado di contare poi al momento del voto. Un voto che non è soltanto politico, elettorale, ma esiste anche nelle scelte di consumo.
Gli hashtag dei tweet hanno permesso di mettere in contatto persone sconosciute, raccolte sotto una stessa, infinita, conversazione. L’anonimato più o meno garantito ha tuttavia consentito agli utenti anche l’uso di una comunicazione più aggressiva, secondo l’idea errata di una impunità diffusa. È così che troll e utenti falsi hanno invaso il dibattito pubblico, utilizzando un registro linguistico che probabilmente nella vita di tutti i giorni non userebbero, a eccezione – probabilmente – dello stesso Trump. Il che ha aumentato la polarizzazione dello scontro all’interno del dibattito pubblico.
Sia da candidato, sia da presidente degli Stati Uniti d’America, Trump ha mantenuto intatto lo stesso livello comunicativo, improntato a una sostenuta aggressività linguistica. Di volta in volta, ha individuato i nemici contro cui scagliarsi e contro cui scagliare il suo pubblico. Non solo Hillary Clinton nel corso delle elezioni del 2016, ma tutto un universo sociale, politico, mediatico che si è guadagnato gli strali trumpiani. Media non simpatizzanti, avversari interni al Partito Repubblicano nonché quelli del Partito Democratico, scrittori, intellettuali.
Trump ha fatto ampio uso della retorica comunicativa del «Noi» contro «Loro» sostituendo però il «Noi» con l’«Io». Nei suoi tweet, emanazione diretta e non mediata del pensiero di Trump, è lo stesso miliardario americano a ergersi a difensore di una mitologica stagione perduta degli Stati Uniti. Una stagione che egli intende ripristinare. Non è infatti cambiato, neanche per le elezioni presidenziali del 2024, lo slogan che ebbe fortuna nel 2016: «Make America Great Again».
L’individuazione di un nemico è un meccanismo classico dell’agire comunicativo populista. Nello specifico, Trump non pare aver problemi a cercare nemici anche nel suo partito, il Grand Old Party. Per non parlare dei media un tempo considerati vicini, come la Fox, sostenitrice di Trump alle elezioni del 2016 e dopo non più. Durante la campagna elettorale per le primarie del 2024, agilmente vinte dal tycoon, che non si è dovuto sporcare troppo le mani, i suoi avversari repubblicani sono stati pesantemente insultati.
Tra questi, colpiscono gli insulti rivolti a Nikki Haley, ex governatrice del South Carolina, già ambasciatrice della Casa Bianca all’Onu sotto l’amministrazione Trump. L’ex presidente degli Stati Uniti l’ha definita “birdbrain” (2024), cervello di gallina, e quando Haley ha vinto le primarie nel distretto di Washington D.C. gli insulti sono stati recapitati su Truth Social, il social media creato e finanziato da Trump dopo la sospensione del suo account su Twitter, ora noto come X. Per Trump con il passaggio a Truth è cambiato poco, visto che ha continuato a usare il simil-Twitter allo stesso modo. «Mi sono tenuto volutamente alla larga da Washington: la “palude”, con pochissimi delegati e nessun vantaggio», ha scritto Trump sul suo social media. Ecco riaffiorare un’altra idea cara allo stile populista: Washington, sede del governo degli Stati Uniti, non fa gli interessi del popolo. Washington è un posto dove ci sono politicanti ed élite che pensano soltanto a sé stessi.
Come detto, l’ex capo della Casa Bianca ha usato Twitter per attaccare avversari e compagni di partito. Una ricognizione fra i tweet di Trump, fra quando annunciò la sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti, nel giugno 2015, e l’8 gennaio 2021, quando Twitter lo rimosse, può essere utile a capire concretamente di che cosa stiamo parlando. Il New York Times ha catalogato (2021) tutti gli attacchi di Trump in questo periodo. È quella che Oscar Winberg chiama «Insult Politics» (Winberg 2017), la politica dell’insulto. Il primo tweet raccolto dal New York Times è rivolto ai politici: «Tutti chiacchiere e zero fatti» (16 giugno 2015).
Ma Trump ne ha fin da subito per tutti, e non soltanto per i Democratici: Lawrence O’ Donnell, popolare conduttore televisivo, viene definito «una delle persone più stupide della televisione» (25 giugno 2015), Barack Obama viene definito «debole e inefficace» (2 luglio 2015) oltre che «terribile» (12 ottobre 2015), Mitt Romney, senatore repubblicano, ex governatore del Massachusetts, ha «perso un’elezione che avrebbe dovuto vincere facilmente» (18 luglio 2015). Arianna Huffington, fondatrice di Huffington Post, è una «liberal clown» (18 luglio 2015). […]
Trump ama anche inventare soprannomi per screditare gli avversari. Biden è «Sleepy Joe». Nancy Pelosi, speaker della Camera, è «Crazy Nancy». Bernie Sanders è «Crazy Bernie» ma anche «Castro lover». Hillary Clinton è «Crooked Hillary». James Comey è «Dirty Cop». Elizabeth Warren, senatrice, è «Pocahontas». Chris Cuomo, ex anchor della Cnn, è «Fredo».
Come si nota da questa lista di insulti, Trump non risparmia nessuno. Nemmeno i suoi compagni di partito. Non c’è circostanza in cui Trump non voglia ribadire la propria diversità, finanche antropologica, rispetto ai propri avversari e alle élite. […] Che sia rivolto contro avversari esterni o interni, non cambia. Tutto perché si possano attaccare le élite e rivolgersi all’elettorato come difensore degli interessi del popolo.
*da: David Allegranti, Come parla un populista, Mimesis, Milano 2024