di Antonio Gurrado (ilfoglio.it, 6 gennaio 2022)
Questa storia di una donna al Quirinale è una vertigine definitoria che rischia di prenderci la mano. Parte infatti dall’assioma non verificato secondo cui una generica donna presidente debba per forza essere meglio di ciascuno dei nomi maschili che vengono avanzati ormai da settimane, mesi. Prosegue con la fallacia secondo cui, dopo tot presidenti maschi, adesso tocchi a una donna qualsiasi, come se la carica dovesse essere assegnata secondo una turnazione fra categorie (secondo la stessa logica, a questo punto potrebbe toccare anche a un sacerdote, a un punk, a un vigile urbano, a una persona con la barba…).
Culmina nel più vieto idealismo platonico, aggrappandosi alla purissima e vacua formulazione “una donna” – una donna in quanto donna, espressione astratta della quidditas femminile – a discapito delle specifiche donne valide, dotate di nome e cognome, che possono risultare eleggibili in questa tornata come lo avrebbero meritato nelle precedenti; è un eccesso di femminismo astruso che, in altri tempi, avrebbe portato a considerare Caligola un eroe dell’animalismo per aver fatto senatore non tanto il proprio cavallo quanto la cavallinità.
Terminerà, infine, nella presa di coscienza che nessuna possibile candidata nel concreto è all’altezza della donna astratta, ideal eterna, che si vorrebbe eleggere presidente; così che alla fine, dovendo pur votare per qualcuno, la scelta cadrà anche stavolta su un maschio. Femminista, però: uno che magari fra sette anni sostenga che è giunto il momento di eleggere una donna al Quirinale.