di Stefano Bartezzaghi (repubblica.it, 18 giugno 2023)
Dimesso dall’ospedale dopo l’intervento di laparatomia e dieci giorni di ricovero, Francesco ha tenuto a dire “Sono ancora vivo!”. Scherzava, lui. Ma per noi è difficile non pensare che già soltanto negli ultimi giorni della degenza papale se ne sono invece andati, tra gli altri: Guido Bodrato, il caro Nuccio Ordine, Silvio Berlusconi, Francesco Nuti, Flavia Franzoni, Paolo Di Paolo, Treat Williams, Cormac McCarthy.
È sembrato di tornare ai terribili primi mesi del 2016, quando non c’era quasi giorno che non arrivasse la notizia di un congedo: David Bowie, Umberto Eco, Silvana Pampanini, Ettore Scola, Paolo Poli, Harper Lee, Ida Magli, Prince… Le scomparse da prima pagina di tanto in tanto si infittiscono come accade da che il pantheon della celebrità – quarto d’ora dopo quarto d’ora – si è allargato a dismisura. In periodi come questi i giornali si fanno colmi di ricordi e i lettori (almeno alcuni) di perplessità.
La nostra attualità sta ancora producendo personaggi altrettanto famosi? Lasciando perdere il Cavaliere, possiamo dire che siano in attività fotografi come Di Paolo, scrittori come McCarthy, comici come Nuti? Non si parla delle qualità individuali, su cui si può sempre discutere. Diversi necrologi hanno per esempio dichiarato McCarthy lo scrittore americano più importante, dopo Hemingway e Faulkner – parere che non collima con quello di chi cinque anni fa ha messo in cima alla lista l’allora appena scomparso Philip Roth. Qui si parla soltanto della magnitudo luminosa, del riverbero nei media, dell’ampiezza di quella che David Foster Wallace (a sua volta in ottima posizione in graduatorie alternative) chiamava la “spettazione”, cioè l’uditorio mediale. Potremmo dirla anche con Dalla: “quelli che ti son davanti / e son in tanti e ti battono le mani”. Se non fosse che non tutti battono davvero le mani, come pure ai funerali è ora ammesso.
Il modo in cui si è organizzata la platea della spettazione ha reso obsolete le massime del “Parce sepulto” e del “De mortuis nihil nisi bonum”, secondo le quali i morti si rispettano parlandone bene o tacendone. Oggi si acquisisce popolarità sostenendo tesi che appaiono originali rispetto a un modello standard, detto il più delle volte mainstream. Molti applausi al presepe, ma molti, forse di più, a Tommasino Cupiello e al suo “Nun me piace ’o presepe”. La regola del parlare bene o tacere è così automaticamente relegata nel dominio dell’ipocrisia: simulazione di buoni sentimenti e nascondimento delle verità sgradite. Non c’è quasi funerale che non sia animato dall’intervento almeno collaterale di dissidenti che ci tengono a mettere agli atti che il defunto era un poco di buono e che sarebbe ipocrita tacerlo. Nel caso di Berlusconi era scontato. Marco Travaglio è riuscito a parlare male di Berlusconi persino ai funerali di Curzio Maltese, dal pulpito. Ma anche nella generalità degli altri casi fa ormai parte del rito. Il coccodrillo in fondo resta un animale feroce.