di Andrea Fioravanti (linkiesta.it, 17 aprile 2024)
Il segreto di un film distopico riuscito è raccontare una versione del futuro prossimo allo stesso tempo inquietante e verosimile. Negli anni Cinquanta, gli americani esaltati dal sogno spaziale si rannicchiavano impauriti nelle poltroncine del cinema, guardando sul grande schermo i marziani invadere la Terra ne La guerra dei mondi.
Vent’anni dopo, vedere i drughi di Arancia meccanica picchiare impotenti borghesi altolocati era una scena fin troppo familiare per un pubblico abituato all’uso disinvolto della violenza. E dopo aver guardato Matrix tutti abbiamo pensato almeno una volta di vivere in una simulazione. Da I confini della realtà a Black Mirror la distopia funziona quando gioca con le paure provocate dalla cronaca, sublimandole in un racconto coinvolgente. È ciò che accade nel film Civil War, al cinema dal 18 aprile, in cui, fin dalle prime scene, la seconda guerra civile sembra uno scenario plausibile; forse perché abbiamo visto il suo antipasto politico il 6 gennaio 2021, quando i trumpiani con le corna e la faccia dipinta di blu assaltarono il Campidoglio, simbolo della democrazia americana.
Ma chi guarderà l’ultimo film di Alex Garland (regista di un piccolo gioiello come Ex Machina) non deve aspettarsi il racconto di un colpo di Stato organizzato a Washington, quanto piuttosto il suo secondo tempo: la reazione militare di una parte dell’America a un presidente che ha sciolto l’Fbi, bombardato i suoi connazionali, dichiarato guerra ai giornalisti e infranto la Costituzione, facendosi eleggere per il terzo mandato (vi ricorda qualcuno?).
Sì, perché nel film a scatenare la guerra civile è la secessione di due Stati, la California e il Texas, da decenni rispettivamente simboli del Partito Democratico e di quello Repubblicano (anche se il Texas, con l’arrivo di tanti californiani fuggiti dalle grandi città della costa Ovest, ha aumentato la sua percentuale liberal), che hanno superato le loro divergenze politiche e unito le loro potenti economie per avanzare verso la Capitale e assaltare la Casa Bianca. Dagli Stati Uniti si è staccata anche l’Alleanza della Florida, che però va per conto suo, e anche questo aspetto non è così distante dalla realtà degli Stati Uniti.
Per raccontare l’America dilaniata dalla sua polarizzazione, Garland ripesca un trucco sempiterno del cinema, il viaggio, che permette facilmente allo spettatore di seguire in modo concreto e metaforico l’evoluzione dei protagonisti di fronte alle sfide morali (e fisiche) che devono affrontare. Infatti Civil War non fa vedere quasi mai il Presidente, interpretato dal comico Nick Offerman, ma segue le vicende di quattro personaggi che rappresentano altrettanti volti del giornalismo. E questa è già una dichiarazione di intenti.
C’è l’esperta fotoreporter Lee Smith (Kirsten Dunst), che non crede più nel potere persuasivo dei media ma continua a fotografare imperturbabile la morte che la circonda, corpo dopo corpo. C’è il suo collega giornalista Joel (interpretato dal brasiliano Wagner Moura, il Pablo Escobar di Narcos), un personaggio così spudoratamente tolstojano nel desiderare l’adrenalina della guerra da ricordare certi eroi dei film anni Ottanta. Poi c’è Jessie Cullen (Cailee Spaeny), un’aspirante fotografa di guerra che imparerà presto il mestiere dai suoi cattivi maestri. E infine Sammy, editorialista del New York Times, vecchio e stanco, ma con un acuto senso della notizia; ovvero, come viene percepito il suo giornale da gran parte degli americani.
I quattro cercano lo scoop della vita, intervistare il Presidente prima che venga ucciso dalle Forze Occidentali di Texas e California. E lo fanno viaggiando a loro rischio e pericolo verso Washington D.C., dove i giornalisti non sono ben accetti: «Nella Capitale sparano a vista ai giornalisti. Ogni istinto in me dice che questa è la morte», profetizza Sammy, avvertendo indirettamente gli spettatori. Garland ha confessato di essersi ispirato ad Apocalypse Now, capolavoro di Francis Ford Coppola, e in apparenza questo film è un viaggio verso il cuore di tenebra della politica americana. Ma fin da subito si capisce che l’obiettivo non è raggiungere la giungla dov’è nascosto il colonnello Kurtz, quanto testimoniare la polarizzazione degli americani e le ragioni che li hanno portati a strappare il fragile contratto sociale che li ha tenuti uniti finora.
È in questa stringata ma efficace trama che si esprime tutto il miglior cinema di Garland, capace di esaltare il perforante rumore degli spari e allo stesso tempo fermare il tempo con i silenziosi scatti dei fotoreporter. Così come esibire con una certa maestria ruvida, ma non macabra, i corpi trapassati dalle pallottole, gettati in una fossa comune o appesi in una stazione di servizio. La seconda guerra civile americana è verosimile proprio perché il caos politico si declina in tanti piccoli atti meschini di violenza in cui ogni sconosciuto diventa un potenziale nemico, scatenando l’anarchica diffidenza e l’ottocentesco spirito di sopravvivenza americano. «Non sai per quale parte combattono?», chiede il giornalista. «Qualcuno sta cercando di ucciderci. E noi stiamo cercando di uccidere loro», risponde il soldato e qualche spettatore cinefilo ripenserà alla sua versione all’amatriciana: «Sempre mejo ’n amico morto che ’n nemico vivo!», ne La grande guerra di Mario Monicelli.
Proprio in questo aspetto Civil War assomiglia a una delle anabasi più belle della storia del cinema, The Warriors [I guerrieri della notte, di Walter Hill – N.d.C.], film del 1979 in cui i membri di una gang devono attraversare New York, dal Bronx a Coney Island, combattendo contro varie bande nemiche per sopravvivere. Allo stesso modo, i fotoreporter di Civil War dovranno combattere col dilemma morale: raccontare l’orrore pur di testimoniare la Storia o intervenire per far sì che non accada qualcosa di peggio? «Quando si inizia a porsi queste domande, non si può più smettere. Quindi non chiediamo. Riportiamo per far sì che gli altri chiedano. Vuoi essere un giornalista? Questo è il lavoro», spiega Lee alla giovane collega Jessie.
Per farci immergere in questa America lacerata, lo sforzo produttivo è stato notevole. Con un budget di cinquanta milioni di dollari, Civil War è il film più costoso realizzato dalla A24, lo studio indipendente del momento, noto aver prodotto Moonlight, vincitore di tre Premi Oscar. Lo sforzo sembra ripagato, visto che nella prima settimana il film ha già guadagnato più della metà del suo costo: 27,5 milioni di dollari, rendendola la prima pellicola della A24 a raggiungere il primo posto del box office nazionale e ad avere il più alto incasso di sempre nel primo fine settimana. Ma il paradosso è che la Cgi (Computer Generated Imagery) usata per mostrare il dispiegamento di elicotteri e carri armati (quella sì una citazione banalotta di Apocalypse Now) è meno coinvolgente e credibile dei singoli teatri di violenza lungo il percorso.
Da Mr. Smith va a Washington a Tutti gli uomini del presidente, da Taxi Driver a The Manchurian Candidate fino a Le idi di marzo, il cinema hollywoodiano ha mandato spesso messaggi diretti alla politica senza giri di parole o metafore sofisticate, ma forse in questo film l’allegoria è fin troppo palese. C’è il campo profughi, il nazionalista ottuso (interpretato da un Jesse Plemons indimenticabile), il Presidente paranoico, esagerato e ripetitivo. Addirittura il campo base dei ribelli è a Charlottesville, in Virginia, dove nel 2017, nel pieno della presidenza Trump, alcuni gruppi di estrema destra – inclusi neonazisti, suprematisti bianchi e membri dell’alt-right – si riunirono per protestare contro la decisione della città di rimuovere la statua del generale Robert E. Lee che aveva guidato l’esercito degli Stati Confederati del Sud. Qui un ventenne esaltato di estrema destra travolse con la sua auto la trentaduenne Heather Heyer; Trump commentò: «C’erano anche persone molto brave, da entrambe le parti».
Tutti questi riferimenti così facilmente leggibili anche al pubblico europeo mostrano quanto Civil War sia stato pensato e scritto nel 2020; ma, a forza di sommarli, si perde un po’ la forza di un racconto che aveva il gran pregio di andare dritto al sodo senza perdersi nei flashback tipici dei prodotti Netflix o nella inverosimile spiegazione di traumi infantili che condizionano la vita dei protagonisti per decenni, come fossero monoliti emotivi. Dopo aver mantenuto un ritmo invidiabile per tre quarti del film, sul finale Garland tradisce l’evoluzione dei suoi personaggi e cede alla tentazione di trasformare la distopia in ucronia, creandosi un soddisfacente finale su misura, come fece Quentin Tarantino in Bastardi senza gloria. Ma forse è questo ciò che serve al pubblico americano: un avvertimento in vista del 5 novembre, quando si voterà per le presidenziali. «Ogni volta che sono sopravvissuta a una zona di guerra, ho pensato di mandare un monito a casa: “Non fatelo”. Ma eccoci qui», dice Lee a Sammy nel film.
Ed eccoci qui, in un mondo in cui i media non possono convincere le due parti polarizzate in conflitto, né coinvolgere la maggioranza indifferente rifugiatasi nelle fattorie del Midwest, aspettando che passi la nottata. Senza un pubblico, ai giornalisti non resta che andare alle viscere del loro mestiere, raccontando la guerra nel modo più vicino e crudo possibile, superando qualsiasi confine morale e passando sopra cadaveri e colleghi pur di entrare nella Storia, che sia con una dichiarazione o una fotografia.