Durante la Seconda guerra mondiale Ford, Wyler, Stevens, Capra e Huston seguirono l’esercito Usa. Le loro riprese tornano in Five Came Back, il docufilm timbrato Spielberg
di Elena Martelli («Il Venerdì», suppl. a «la Repubblica», 24 marzo 2017)
Alla battaglia delle Midway, dove gli americani le suonarono ai giapponesi, c’era anche John Ford. Aveva già vinto tre Oscar e girato i suoi film memorabili: Ombre rosse, Furore, Come era verde la mia valle. Ma partire per il fronte come regista e aver perso un occhio in battaglia per il suo ego era stato più utile che vincere un premio…lo ripagava dall’onta di non aver potuto partecipare per un soffio alla prima guerra mondiale, quando aveva 22 anni. Più avanti, filmò anche lo sbarco in Normandia accanto a George Stevens che, lasciati i film con Fred Astaire e Ginger Rogers, si era arruolato pure lui per il fronte. Dallo shock di quella carneficina, Ford sarebbe affogato nell’alcol se non fosse stato prelevato a forza e riportato a casa dal governo. Ford era come i suoi film: un tipo tutto “Fato e Furia” e senso del dovere, in sintonia con il momento storico che voleva uomini d’onore come lui. Il momento storico chiedeva anche patriottismo. E il governo americano decise che per raccontare la guerra alla gente ci si doveva affidare a chi, di racconto, campava alla grande, quindi a Hollywood. E chi meglio di Frank Capra, l’inventore della commedia, colui che sosteneva: «Si è quel che si narra»? Il regista di Accadde una notte disse di sì: l’occasione, vista dalla prospettiva del ragazzo siciliano emigrato negli Usa e desideroso di sentirsi americano, era imperdibile. E si ritrovò a girare e produrre per Washington Why We Fight, una serie di documentari di propaganda. All’origine non erano destinati al pubblico, ma a motivare le truppe, per spiegare ai giovani soldati perché il loro Paese dovesse entrare in guerra oltre l’Atlantico. Forse nemmeno Stevens, Ford, Capra, William Wyler e John Huston lo sapevano bene, ma oggi i loro documentari sulla seconda guerra mondiale sono diventati il cuore di Five Came Back, il notevole docufilm in tre puntate scritto da Mark Harris, narrato da Meryl Streep, prodotto da Spielberg e diretto da Laurent Bouzereau, dal 31 marzo su Netflix. Alternando pezzi dei magnifici film di propaganda a interviste di repertorio ai cinque registi, Bouzereau e Harris raccontano come la guerra plasmò le loro vite e il loro cinema. Ognuno era andato al fronte per motivi diversi, con un’idea di vita e di cinema differente. E ognuno era tornato cambiato per sempre. Wyler era diventato sordo durante una ripresa in missione su un aereo. Tornato a Hollywood girò I migliori anni della nostra vita sul ritorno di tre veterani dal fronte, usando la camera in modo molto più realistico di quanto avesse fatto con Mrs. Miniver che gli era valso I’Oscar. Ora quel film gli pareva troppo glamour rispetto alla cruda realtà della guerra. Anche se aveva tenuto il punto con il produttore che gli aveva chiesto di non dipingere i tedeschi con troppo odio. «Mi dispiace» aveva risposto «io sono ebreo e in Europa ho lasciato i miei parenti». Wyler era nato in un paesino dell’Alsazia. I suoi avevano un emporio che lui avrebbe ereditato se non avesse lasciato l’attività patema per raggiungere a Los Angeles lo zio, l’uomo che aveva fondato gli Universal Studios. Quando, durante la guerra, era tornato nella sua cittadina, l’insegna del negozio di famiglia era ancora lì ma della sua gente non c’era più traccia. «Hitler era stato preciso nell’eliminazione degli ebrei» commenta Steven Spielberg, che compare in Five Came Back con Francis Ford Coppola, Lawrence Kasdan, Paul Greengrass e Guillermo Del Toro. «Wyler era il miglior amico di Huston, ma erano come il giorno e la notte» ricorda Spielberg. «Uno rude e selvaggio l’altro dolce e così perfezionista da essere soprannominato “40-take Wyler”». Le immagini girate da capitan Huston sulla battaglia di San Pietro in Sicilia, dove fu mandato da Capra, sono tra quelle più spettacolari del documentario di Bouzereau. Ma non furono girate in diretta. Huston arrivò sul posto con due giorni di ritardo: così riallestì lo scontro girando un film di guerra vero e proprio. Forse fu uno dei primi esperimenti di docufiction di tremenda bellezza e realismo. Le immagini più spietate sono però quelle che filmò Stevens: dopo lo sbarco in Normandia continuò a seguire le truppe americane che avanzavano in Europa. Filmò la resa di Parigi, facendo rifare il momento topico della consegna della città perché la scena era avvenuta in ombra, proseguì per la Germania e, tra i primi, entrò a Dachau. La prepotenza dei corpi accatastati dietro ai forni crematori spalancò le porte dell’incredulità. «Girò materiale per due film. Si rese conto subito che non era più propaganda ma una prova dell’esistenza dei campi di sterminio» dice Bouzereau. «In vari modi l’eco di quei footage si sente nei film di oggi. Per Salvate il soldato Ryan e Schindler’s List Spielberg ha fatto riferimento allo sbarco in Normandia e alle immagini di Dachau di Stevens». A noi le vite di questi cinque signori colti nel loro momento Sturm und Drang fanno venire nostalgia, per un’epoca in cui la poetica rivaleggiava con il denaro. E non in paradiso ma a Hollywood, «quell’arena» dice Greengrass «in cui se riesci a sopravvivere puoi sopravvivere ovunque».