di Filippo Ceccarelli («Il Venerdì», suppl. a «la Repubblica», 20 ottobre 2017)
Nell’autunno del 1987, in un luogo imprecisato e privo di qualsiasi suggestione fotografica, Antonio Gava e altri ex dorotei ed ex fanfaniani, dei quali si è irrimediabilmente sbiadito il ricordo, riuscirono a quagliare una nuova maggioranza nello scudocrociato attraverso una specie di seminuova corrente di maggioranza che fu battezzata, con un sospiro di rassegnata mestizia, “Azione popolare”, ma che tutti chiamarono “Corrente del Golfo” dato che i principali contraenti erano di Napoli.Fu una svolta nel piccolo grande mondo, antico e grigiastro, della Democrazia Cristiana dove l’era di Ciriaco De Mita andava consumandosi, così come, dopo la mancata “staffetta”, stentava a contenere la pressione di Bettino Craxi il nuovo governo affidato al giovane Giovanni Goria, con la sua barba da Sandokan. Questa tipica, articolata e retroflessa oleografia da Prima Repubblica, propedeutica alla nascita del cosiddetto Caf e perciò decisiva alla produzione di una serie di governi pentapartito guidati dall’eterno Andreotti, dominava l’informazione politica quando trent’anni orsono nacque Il Venerdì. Ma se qui la si è tirata tanto per le lunghe è per mettere a confronto l’impatto della scolorita nascita del Grande Centro, altro nome della corrente neo-gavianea, con quello di un altro evento, anch’esso avvenuto pochi mesi prima nel cuore della politica, ma segnato da un fantasmagorico valore profetico: l’elezione, a furor di popolo, di Cicciolina in Parlamento. Rivista e rivissuta con gli occhi di oggi, l’entrata di una pornostar nel Palazzo del Nomos, della Norma, abbaglia qualsiasi determinante rivolgimento di illustri grisaglie democristiane. E non solo perché le tonalità sgargianti di quell’imprevista beffa oscuravano il bianco e nero delle cronache di Montecitorio, pure indicando che c’era qualche problema nella democrazia rappresentativa. Né si limitava a segnalare, il trionfo di un personaggio estraneo alla politica e avversato da quegli stessi Radicali che non avevano potuto escluderla dalla lista, che lo spettacolo, nel suo autonomo sviluppo, si stava attrezzando a prendere in ostaggio il potere stringendolo in una morsa tanto più soffocante quanto più inavvertita. No. È che sotto le spoglie dell’ignara onorevole Ilona Staller, al secolo Cicciolina, cittadina ex ungherese che inaugurò la X legislatura repubblicana presentandosi alla Camera con un vestito lungo a volant tricolore, insomma con lei, in lei e attraverso di lei, l’ordine, l’armonia e la razionalità della vita pubblica si scompigliarono per la prima volta, senza ritorno: e dietro agli sguardi vogliosi o scandalizzati, agli sghignazzi e alle colpe, alle sottigliezze e alle scemenze, ai perché e ai per come, fu possibile intravedere l’ombra di uno smottamento di enorme portata, misterioso e al tempo stesso gravido di contraddittorie conseguenze. Federico Fellini, il Maestro, ma anche il Mago, rimase sconvolto da quell’elezione che a suo modo scavallava la realtà. Gli parve che Cicciolina rappresentasse «un simbolo chiuso, un sogno incubatico, una radiografia di qualcosa di non risolto, come una smania buia che agita in sé contenuti profondi e allarmanti». Beati e insieme dannati gli artisti e ancora di più i veggenti. Nel gran caos che andava a delinearsi in Italia, tra la cronica instabilità dei governi e l’economia che ricominciava a girare a vuoto, era come se la potenza politica di quella carne nuda e la vittoria elettorale della pornografia avessero inoltrato un mandato di comparizione alle sacre ideologie e alle grandi narrazioni collettive del secolo ormai alla fine. A chi, anche giustamente, può trovare questa specie di apocalisse avventata o, peggio, frutto di fumoserie ed elucubrazioni degne di una mente infuocata, ci si limita a osservare che da lì a un paio d’anni, o forse tre, comunque un tempo brevissimo nella Storia, fu il presidente della Repubblica, nientemeno, che cominciò a “fare il matto”; mentre su al Nord già da un po’ di tempo un altro “matto”, ex cantante ed ex di troppi mestieri, un tipo con la voce roca e la capigliatura a nido di cicogna, insomma Bossi, aveva ben iniziato a zompettare su palchi di tubi Innocenti; e a giurare nel pratone di Pontida e a strillare dentro i microfoni che l’Italia non doveva più esistere, anzi era già finita, basta; e visto che c’era, tra gli applausi, notificava al gentile pubblico non pagante, ma in taluni casi dotato di finti elmetti con le corna, che la Lega, entità collettiva opportunamente ridotta ad unum, “ce l’ha duro” – con il che l’osceno, già approdato in Parlamento, seguitava a guadagnare posizioni. Le immagini di Cossiga con il tic al labbro superiore e le mostrine dei carabinieri cucite sulla giacca; così come quelle del senatùr che in un accaldato capannone inaugurava la minaccia fallica – «ah, bonazza, siamo armati di questo manico qui!» – ecco, le foto di quei due, ma anche di tanti altri, dicevano nel modo più convincente che le forme del discorso pubblico erano ormai destinate a prevalere sui contenuti. Per cui anche Bettino Craxi, persi i referendum, ma anche la salute e quella lucidità che gli aveva consentito di rompere la tenaglia delle due chiese, non poté far altro che mettere in mostra la sua canottiera sudata, emblema di sconfitta e impotenza. E Achille Occhetto, che troppo tardi aveva cercato di mettere al riparo l’originale esperienza del comunismo italiano dal crollo del Muro, si fece un gran pianto congressuale davanti a taccuini, fotografi e telecamere: ma poi tutto terminò nel modo peggiore, anche per lui, e oggi i post comunisti non sono poi così diversi da quelli che quando c’era Enrico Berlinguer loro stessi da giovani avevano combattuto. Ma pazienza. In un campo così ben concimato fu dunque copiosa e severa la mietitura di Mani Pulite. Milano, tornata capitale morale, si prese la sua rivincita sulle mollezze sconclusionate e la vocazione glorificatoria della Città eterna; e più di ogni altra, la foto del Pool di Tangentopoli che avanza in Galleria in un fulgore di efficacia e determinazione restituì l’epopea della Rivoluzione giudiziaria, ma anche – con il senno di poi – delle sue illusioni. Di quella stagione restano in mente gli ex potenti descritti o raffigurati in carcere o nelle aule dei tribunali: Mannino ridotto a uno scheletro, De Lorenzo che si tiene i pantaloni con le mani. E poi Borrelli a cavallo, ancora Craxi con il piedone malato ad Hammamet, Di Pietro a caccia con gli amici, Andreotti che segue diligentemente a capo chino il suo processo per mafia. Poi successero, è ovvio, mille altre cose che con l’immaginario e il mondo dei simboli hanno e non hanno immediatamente a che fare. Ma è con Silvio Berlusconi – e qui si sarebbe arrivati! – che l’interminabile transizione italiana da un lato si accartocciò su sé stessa, dall’altro cominciò a produrre, più che semplici immagini, sogni, visioni, forse a volte addirittura allucinazioni. In questa mutazione c’entra lui, d’accordo: il padrone della tv, il messia dell’apparenza, il signore delle meraviglie, l’imperatore della visibilità. Ma l’impressione è che a mettere le ali al suo volo siano stati lo sviluppo della tecnologia, la moltiplicazione degli schermi, la potenza delle merci, il boato degli stadi. All’inizio suonava come l’ennesima piaggeria, ma più passa il tempo e più si fa largo il sospetto che forse sia davvero esistita un’età berlusconiana. O almeno, a volerla comprendere fra due estremi visivi, con il dovuto arbitrio si può azzardare che l’alfa sia quella cartolina dalle Bermuda in cui si vede il Cavaliere che in pantaloncini e scarpe da corsa si allena con i suoi collaboratori. Nulla più di quel rito restituisce il senso di un rito, di una volontà, di un clan e di un’obbedienza. L’omega di quel ciclo, d’altra parte, è la foto del brindisi di Casoria (che l’autore di questo articolo – se è consentito uno sbuffo di protagonismo – implorò all’art director del Venerdì Gianni Mascolo di reinterpretare artisticamente e che ora campeggia in triplice versione nel suo studio). In mezzo si accavallano una sull’altra, l’una contro l’altra, così tante immagini da saturare, oltre alla vita pubblica, anche la memoria. Il Bagaglino, i beauty center, il Billionaire, il Bolognese, i Cafonal di Dagospia, i cinepanettoni… L’eterna commedia italiana, il suo spirito, la sua dannazione. E le torte immense, i tatuaggi, i paparazzi, il dito medio, il tacco 12, le scimmie urlatrici dei talk show, i labbroni a canotto della chirurgia estetica. Sdraiato su un divano all’aperto, Lele Mora si fa massaggiare i piedi da un paio di tronisti. C’è un cagnetto in primo piano, sembra che dica: che s’ha da fare per non farsi abbandonare. Dopotutto, e col permesso della bestiola, di Cicciolina e dei democristiani di “Azione popolare”, trent’anni sono tanti, ma poi nemmeno troppi.