(ilpost.it, 24 luglio 2021)
Mercoledì scorso, nella prima giornata del torneo femminile di Calcio ai Giochi olimpici di Tokyo, i canali social ufficiali delle Olimpiadi non hanno condiviso alcuna immagine delle calciatrici che si sono inginocchiate prima dell’inizio delle partite in segno di protesta e sensibilizzazione contro le discriminazioni razziali. I responsabili dei social media, secondo una fonte interna citata dal Guardian, stavano rispettando un divieto ricevuto martedì notte e proveniente «dall’alto» di diffondere immagini di atleti in ginocchio durante i Giochi, con un riferimento esplicito alla partita tra Inghilterra e Cile, in programma a Sapporo.
Il divieto è stato ritirato poche ore dopo, ha scritto il Guardian citando la stessa fonte, e a quel punto le fotografie delle calciatrici in ginocchio sono circolate anche sui social delle Olimpiadi. Nella stessa giornata, dopo le calciatrici di Inghilterra e Cile, anche quelle delle nazionali statunitense, svedese e neozelandese si sono inginocchiate, e nessuna immagine di quei momenti è stata diffusa sul liveblog ufficiale di Tokyo né sugli account Facebook, Twitter e Instagram dei Giochi, canali che hanno centinaia di migliaia di follower. Seppure seguito da un repentino ripensamento, il divieto ha generato qualche perplessità perché ritenuto in controtendenza rispetto alle più recenti disposizioni del Comitato Olimpico Internazionale (Cio) in materia di libertà di espressione degli atleti. Nei mesi scorsi, accogliendo le richieste della Commissione Atleti del Cio, il Comitato esecutivo del Cio aveva infatti approvato una serie di raccomandazioni che lasciano agli atleti che partecipano ai Giochi maggiore libertà e allentano in parte le restrizioni imposte dalla discussa Regola 50 della Carta olimpica. Per rispettare il principio di «neutralità politica» del Movimento Olimpico, tale Regola vieta «qualsiasi tipo di manifestazione o propaganda politica, religiosa o razziale in ogni sito, luogo o altra area olimpica».
A proposito dell’eventuale scelta delle calciatrici di inginocchiarsi prima delle partite, nel corso di una conferenza stampa tenuta mercoledì, il presidente del Cio Thomas Bach aveva detto che «è permesso» e che quella scelta non comporta una violazione della Regola 50. Secondo i chiarimenti più recenti, le proteste pacifiche sono attualmente consentite purché nel rispetto dei compagni e senza provocare interruzioni nel gioco. È anche consentito esprimere messaggi politici sui social network e nelle cosiddette “zone miste”, durante le interviste dopo le gare. Sono invece ancora previste sanzioni per eventuali gesti di protesta compiuti sul podio, durante le cerimonie di premiazione. La posizione espressa dal Cio è che «quando un individuo rende le proprie rimostranze, per quanto legittime, più importanti dei sentimenti dei suoi avversari e della competizione stessa, l’unità e l’armonia così come la celebrazione dello sport e della realizzazione umana ne escono sminuite». «I Giochi Olimpici non riguardano la politica. Il Cio, in quanto organizzazione civile non governativa, è rigorosamente neutrale sul piano politico. Né l’assegnazione dei Giochi, né la partecipazione, rappresentano un giudizio politico riguardo al Paese ospitante», scrisse Bach a ottobre scorso.
Sebbene i Giochi siano spesso e da molto tempo celebrati sui media anche per questo valore di neutralità politica difeso dall’Articolo 50, in tempi recenti questa lettura è stata oggetto di una parziale revisione da parte di molti osservatori. «In realtà, i Giochi sono stati a lungo una piattaforma per il potere pacifico: l’uso della cultura e dei valori per formare l’opinione delle persone al fine di ottenere risultati politici, specialmente a livello internazionale», ha scritto il sito The Conversation. La stessa cerimonia di apertura – presente nei Giochi fin dal 1906 e la cui edizione del 2016 a Rio de Janeiro fu vista da 3,6 miliardi di telespettatori – «offre un’opportunità unica per il Paese ospitante di incorniciare una narrazione culturale di sé stesso» e di «presentare al mondo un’immagine politicamente strategica». L’ultima volta che il Giappone ospitò le Olimpiadi fu in occasione dei Giochi Olimpici estivi nel 1964, ricorda The Conversation. Dopo l’esclusione del Giappone dai Giochi del 1948, determinata dall’esito della Seconda guerra mondiale, Tokyo 1964 fu un’occasione per il Paese di ristabilire una reputazione internazionale positiva. Furono peraltro i primi Giochi a essere trasmessi in diretta televisiva, grazie allo sviluppo della tecnologia satellitare. E la torcia olimpica fu portata alla cerimonia dal velocista Yoshinori Sakai, nato a Hiroshima il giorno in cui la città fu bombardata nel 1945.
Tokyo ha inoltre già dimostrato che lo spettacolo televisivo della cerimonia di apertura, diventato nel corso degli anni un potente strumento di diplomazia culturale, può essere a sua volta oggetto di controversie. Il regista giapponese dell’evento, Kentaro Kobayashi, è stato licenziato il giorno prima della cerimonia dopo che era emerso un video in cui, nel 1998, faceva una battuta sull’Olocausto. A marzo si era già dimesso il direttore creativo Hiroshi Sasaki, per una battuta offensiva nei confronti di una comica giapponese, e pochi giorni fa si era dimesso anche l’autore delle musiche della cerimonia, il compositore Keigo Oyamada, per una vecchia intervista in cui diceva di aver bullizzato da bambino un compagno di scuola disabile. La presunta “apoliticità” dei Giochi, ha scritto recentemente il sito Quartz, è oggi messa seriamente alla prova da due tendenze distinte: «il nuovo potere dei singoli atleti, e la crescente pressione pubblica per la responsabilità su questioni relative ai diritti umani e all’impatto ambientale nell’assegnazione dei Giochi alle città ospitanti». E del resto, prosegue Quartz, la storia moderna delle Olimpiadi è piena di eventi che dimostrano quanto i Giochi e il tentativo di regolarne le manifestazioni esterne alle gare siano «apolitici soltanto sulla carta, mentre in realtà sono disordinati e complessi quanto il mondo esterno».