di Simonetta Sciandivasci (ilfoglio.it, 14 maggio 2020)
Noi la conoscevamo bene Chiara Ferragni. Bionda, influencer, ricca, milanese, cremonese, sposata a un arazzo, ape regina della contabilità – ha fatturato partorendo, sposandosi, allattando, cambiando pannolini; in sostanza, laddove noi maturiamo cambiali, ella fattura. E invece sapevamo così poco, e chissà quanto ancora ignoriamo e dovremo imparare, di lei, da lei.Ieri ha deciso che s’impegnerà a combattere la violenza sulle donne, e c’è da credere che qualche stupefacente risultato lo porterà a casa, visto che dispone di ingenti quantità di quel corroborante utile alle grandi cause che sono gli schei (non se ne abbiano le compagne di #nonunadimeno, ma più dello sciopero dell’8 marzo può il capitale) e visto anche che di fallire non fallisce mai.
È volitiva come soltanto certe bionde. Ha scritto su Instagram (una sequenza di cinque paginette fotografate e postate) che ha seguito il trend di Tik Tok, #denimDay, e ha ascoltato e letto troppe storie di abusi e violenze domestiche in cui tutte le vittime riportavano di sentirsi in colpa, così ha capito che il problema non solo esiste ma è nostro convivente – «spesso capita anche nel nostro piccolo circolo di amici» – e che quindi bisogna cominciare a parlare, denunciare, dire. «Ho un pubblico di 20 milioni di persone e cercherò di “educare” e sensibilizzare sempre di più. Fate lo stesso. Insieme possiamo essere parte di un cambiamento epocale». Banale? Mica tanto. 20 milioni di persone, signori. Le stesse sulle quali, a marzo, ha contato per raccogliere, in una settimana, 4 milioni di euro da donare al San Raffaele. Le stesse che in questa quarantena l’hanno vista mangiare Oreo, fallire flessioni, giocare con suo marito, parlare dell’importanza di stare a casa, prendere il Sole su un divano costoso, parlare di revenge porn con addosso qualche milione di euro in accessori grossier. Perché è quest’alternanza che funziona, in lei: il fatto che sia assolutamente vera o assolutamente finta (importa?) sia nell’impegno sia nel disimpegno.
Quando la madre di suo marito, manager di lui ma naturalmente non di lei, impose a entrambi di scusarsi con i propri seguaci per aver lanciato lattughe alla festa di compleanno di lui, macchiandosi così di spreco alimentare, Chiara se ne stette quasi muta mentre lui recitava un penitenziagite mal sceneggiato. Ma erano giovani, inesperti, e soprattutto avevano seguito i consigli di una madre. Adesso dirige Chiara, una alla quale c’è chi dice no, e son quelli dell’ordine costituito, e c’è chi dice sì, e sono quelli che sanno ammettere che vorrebbero saper fare ciò che sa fare lei, essere trasparentemente insinceri come lei, funzionare come lei. Nessuno, neanche quelli che dicono no a Chiara, potrebbe accusarla di pinkwashing, e cioè farsi paladina delle donne per esclusive ragioni di presentabilità e contabilità, perché Chiara è sinolo di denaro e morale, ed è per questo che solo a lei è riuscito di sorpassare indenne il pauperismo all’italiana. E se pure qualcuno dovesse fiatare, Chiara ha da opporre i fatti. Perché lei fa.
Durante la quarantena i social network hanno velocizzato un processo già cominciato, se pure a singhiozzi, e con risultati variegati: l’influencer non può più vendere e svendersi, disimpegnarsi e disimpegnare, alleggerire e svagare. L’influencer deve responsabilizzare i propri seguaci, fornir loro un’idea di mondo, piantarceli dentro e non più, com’è stato sempre, portarli via con sé. Ieri, mentre Repubblica riportava dei soliti noti accapigliamenti tra femministe di ieri, di oggi, di domani, su cosa faccia il velo a una donna, l’ape regina della contabilità faceva per le donne assai più di loro. A pratica educativa ultimata, recavasi repente nella sua cabina armadio, a fotografarsi in “Made in Ferragni” vestita. Stupenda.