di Alessandra Coppola (corriere.it, 6 maggio 2019)
«Una cosina fragile», disse di lei l’attrice che l’ospitò a Buenos Aires, smunta quindicenne di provincia, gli occhi rotondi, i denti sporgenti, le caviglie grosse: «Da dove avrà preso la forza per toccare il cuore della gente?». Maria Eva Duarte, nata cento anni fa, il 7 maggio 1919, nella vasta periferia della capitale argentina, figlia illegittima di un signorotto locale, vibrante di aspirazioni e capacità.Prima della nazione intera, ne fu conquistato l’allora colonnello Juan Domingo Perón: era il ’44. «Negrita», «Chinita», la sua esile brunetta dischiuse una bionda platino dal portamento eretto e il tono perentorio, in grado di fermare scioperi dei ferrovieri o di trascinare lungo la 9 de Julio centinaia di migliaia di descamisados, così poveri da non possedere neanche una giacca. Incredulo il truccatore dei suoi primi, dimenticabili, film: «La bellezza le cresceva da dentro, la donnina sgraziata era diventata una dea».
Nel febbraio del ’46 Perón è presidente e la «primera dama» si è già trasfigurata in Evita. «Abanderada de los humildes», voce dei più umili, ai quali provvede tra la beneficenza e le riforme sociali. A lei si devono il suffragio universale e alcune conquiste del Welfare argentino; a lei risale il ramo «di sinistra» del peronismo, movimento in grado di coprire l’intero arco costituzionale (oggi sarebbe imparentato al populismo). A lei si attribuisce uno dei più luminosi modelli di potere «incarnato», capelli, pelle, braccia protese che diventano un marchio, un culto.
La malattia e la morte precoce contribuiscono a costruire la leggenda. Spinta dal sindacato, Evita accetta di correre come vicepresidente alle elezioni del ’51. Ma per le pressioni dei militari, la spaccatura dei peronismi e probabilmente per le condizioni di salute, si ritira. Ha un cancro all’utero, le resta poco da vivere. Il 17 ottobre, affacciata sulla folla immensa di Plaza de Mayo, Evita pronuncia quello che è considerato il suo testamento: «Abbiate cura di Perón, so che raccoglierete il mio nome e lo porterete come bandiera fino alla vittoria», scoppia in lacrime tra le braccia del marito.
Don’t cry for me Argentina, il tema principale del musical portato al cinema nel ’96 da Alan Parker, Madonna protagonista, s’ispira (liberamente) a questa immagine. Gli argentini rispondono con il film più realistico Eva Perón. Il finale è lo stesso, ormai in grave condizioni la donna vota da un letto di ospedale. Il generale vince, ma la moglie peggiora, fino all’ultima emorragia. Alle 20:25 del 26 luglio 1952, a 33 anni, Eva Duarte de Perón muore.
Comincia un’altra storia, stavolta più morbosa e adatta alla letteratura. Evita viene imbalsamata ed esposta al pubblico, il piccolo corpo nudo trattato con la formaldeide e imbottito di segatura, custodito in una cappella della Confederazione generale del Lavoro. Al golpe del 1955 il tenente colonnello Carlos de Moori Koening guida un manipolo di militari che fanno irruzione nella sede del sindacato, bruciano le bandiere, infieriscono sul cadavere e lo portano via. Dove? È un mistero sul quale il celebre scrittore Rodolfo Walsh compone nel 1964 il racconto Quella donna: «Dove, colonnello, dove? (…) La voce mi raggiunge come una rivelazione. – È mia – dice semplicemente. Quella donna è mia».
Il corpo idolatrato di Evita vaga per la capitale, con la protezione di ambienti clericali, quindi nel ’57 viene imbarcato per Genova in una bara col nome di Maria Maggi de Magistris e sepolto nel loculo 86 del Cimitero Maggiore di Milano. Copie di cera, rapimenti, leggende nere, finché la cassa viene dissotterrata nel ’71 e, complici i massoni della P2, restituita a Perón, che intanto è in Spagna. Quando il generale fa ritorno in Argentina per riprendere il potere nell’ultima, drammatica presidenza, il corpo di Evita trova pace, alla Recoleta, Buenos Aires.
«Quel cadavere siamo tutti noi, è l’intero Paese» fa dire Tomás Eloy Martínez a uno dei personaggi di Santa Evita (1995, appena ripubblicato in Italia da Sur), romanzo dell’ossessione perversa di pochi uomini o forse di tutta la nazione. Resta uno dei libri più letti in Argentina.