Capitani tenebrosi

di Guia Soncini (linkiesta.it, 16 settembre 2024)

Le prime parole di gergo televisivo che imparai, quasi trent’anni fa in uno studio Rai, furono «luce cosmetica». Il direttore della fotografia mi spiegava come avrebbe illuminato la conduttrice: con una luce sparata in faccia che l’avrebbe fatta più giovane più bella più santino. Poi negli anni con la luce cosmetica hanno cominciato a esagerare, e irridere i riflettori sparati in faccia a Dietlinde Gruber o a Barbara D’Urso è diventato un pigro espediente di chiunque abbia un telefono connesso al mondo.

Quelli che praticano lo spirito di patata hanno iniziato a dire che gli studi televisivi sembravano il santuario della Madonna di Loreto – ma sempre luce cosmetica era. Sapevamo che la tv era immagine, lo sapevamo tutti: pubblico e star, esperti e dilettanti. Mica è colpa mia se la tv è fatta di immagini, scriveva Beniamino Placido nel 1992, notando che la domenica pomeriggio alla tele la Palombelli aveva una minigonna più corta della Parietti, e prevenendo i cani di Pavlov pronti a dire che le notazioni estetiche si fanno solo alle donne.

Mettiti in mezzo altrimenti sono rovinato se ci fotografano vicini, diceva Tony Blair alla moglie nel 2004 a Porto Rotondo, il giorno in cui Silvio B. si era presentato con la bandana in testa: puoi avere tutte le idee politiche che vuoi, dichiarare guerre, fermare guerre, abolire la povertà o la monarchia o il nucleare, ma per sempre quello nella foto con la bandana sarai, perché tale è la potenza delle immagini. Poi non so cos’è successo. Cioè, lo so bene: sono successi i social. Che sono immagini quanto la tv, immagini ferme e immagini in movimento, ma hanno qualcosa di diverso. Che ci arrivano senza andarle a cercare, certo.

Ho un’amica novantacinquenne che, quando deve dirmi che le è comparso qualcosa su Facebook, dice «mi mandano», perché la modalità push, che ti fa arrivare cose che non ti sei andato a cercare, è così irricevibile se vieni da un secolo meno malsano che pensi che il tizio che ha pubblicato la foto della sua pizza non l’abbia messa lì in balìa d’un algoritmo che ha deciso di fartela arrivare: pensi che te l’abbia mandata lui, che la sua pizza volesse farla vedere proprio a te. Il che, in un certo senso, non è neppure falso. Certo, il push e il fatto di avere quelle immagini nel telefono, in tasca, insieme ai numeri dei nostri cari, rendono i social diversi dalla tv, e più insidiosi.

«Sembri Furio Colombo quando diceva che le tv di Berlusconi ci facevano il lavaggio del cervello», m’ha detto di recente un amico al quale stavo facendo la solita tirata sui social, il push, i politici che non si può pretendere non si comportino da cazzoni se il consenso vanno a cercarlo su Instagram, il declino dell’intelletto a mezzo dopamina. Io cercavo di dirgli che era diverso, perché le cose che ci arrivano senza andarle a cercare ci illudono di riguardarci in un modo che la tv non aveva, e lui sbuffava.

Ma nel caso del momento, quello del video di Matteo Salvini che [alla riapertura del processo Open Arms – N.d.C.] ci spiega che lui ha difeso la patria com’è dovere costituzionale d’ogni cittadino, mi pare ci sia un altro elemento che nessuno tiene più in considerazione. Quello per il quale qualunque chirurgo o lattaio andasse ospite in tv quarant’anni fa sapeva che, se aveva una macchia d’unto sulla camicia, poteva dire le cose più intelligenti del mondo e sarebbe comunque stato quello con la camicia macchiata; e oggi invece un ministro che sta alla tv da sempre, da quand’era ragazzino e concorreva ai quiz, fa un video illuminato dall’alto con delle ombre che neanche Nosferatu.

Lo so che starete leggendo da due giorni la rava e la fava sul merito delle cose dette da Salvini in quei quattro minuti, sull’attendibilità del suo riassunto dei fatti, sull’opportunità politica di fare un monologo del genere – ma in verità vi dico: chi ne ha scritto ha dovuto fare uno sforzo disumano. Perché è impossibile per chiunque non sia cieco concentrarsi su ciò che dice uno che ha il colletto della camicia aperto e un faro puntato dall’alto, e quindi si creano delle ombre che fanno sembrare che indossi un frac, no, aspetta, è un cache-col, e sei ancora lì che ti chiedi ma cos’è, Rhett Butler, cosa fa con quel foulard, no aspetta, è un foulard o altro?, si percepisce Cary Grant?, non c’è mica un foulard, no, è dunque una deformità improvvisa?, ah no, è l’ombra, l’ombra del mento sul colletto – non fai in tempo a pensare tutto questo che quello ha finito di parlare e tu hai pensato solo a com’era illuminato.

Quindi rimetti il video daccapo e cerchi di concentrarti sull’eloquio, ma è impossibile, perché sulle occhiaie già peste di loro c’è l’ombra delle ciglia, neanche in Che fine ha fatto Baby Jane? c’erano delle luci così inquietanti. Chi è il direttore della fotografia, chi è l’operatore di ripresa, che fine ha fatto Morisi, è dunque questa mancanza di luce cosmetica la sua vendetta, dopo di me le ombre?

E comunque quella camicia aperta senza cravatta mi ha fatto pensare a Berlusconi che, dopo una puntata di Risatissima, chiama Lino Banfi per dirgli che le battute su di lui vanno benissimo, ma non le faccia mai più in maniche di camicia: «Ricordati che noi il sabato sera entriamo nelle case degli italiani». Era quarant’anni fa, e c’era qualcuno che si prendeva il disturbo d’insegnare ai comici che le immagini sono fatte d’immagine. Quarant’anni dopo, l’hanno disimparato persino le istituzioni.

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