di Davide Piacenza (wired.it, 4 febbraio 2024)
Alla fine del 2007, quando il mondo era così recente che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito, un amico del liceo mi parlava con fare appassionato di un sito al quale alcune sue conoscenze americane l’avevano fatto iscrivere. “È un social network, dove puoi parlare con la gente che conosci e guardare cosa fa”, mi spiegava, incontrando la mia incapacità di comprendere di cosa stesse parlando ma convincendomi, nel giro di poche settimane, a iscrivermi a mia volta.
Non sapevamo – né io, né lui – che nel giro di pochi anni quel sito, Facebook, sarebbe diventato un sinonimo intercambiabile del concetto di “social network” nelle menti di miliardi di persone, e il protagonista assoluto della prassi, della cultura e dell’immaginario di un’intera epoca. In The Social Network, il film di David Fincher premiato con l’Oscar che mette in scena il mito della fondazione di Facebook, il protagonista Jesse Eisenberg delinea il target di espansione del prodotto: “È gente che conosce gente, e mi servono le loro email”. Ma il personaggio interpretato da Eisenberg, Mark Elliot Zuckerberg, nato il 14 maggio 1984 a White Plains, New York, è tutt’altro che un aspirante socialite in cerca di rivalsa: “Il mio obiettivo non è mai stato quello di rendere Facebook figo. Non sono una persona cool e non ho mai cercato di esserlo”, commenterà a distanza di qualche anno, già seduto su un impero digitale su cui non tramonta mai il profitto, aggiungendo anche di essersi sentito “ferito” da alcune rese del lungometraggio.
In ogni caso, gli annali dicono che il 4 febbraio 2004 Mark Zuckerberg, uno studente al secondo anno di Harvard, presenta TheFacebook, una piattaforma rudimentale che ha costruito in due settimane grazie alle sue capacità informatiche. Il giorno successivo, duemila studenti di Harvard avevano già il loro profilo sul sito. Alla fine dell’anno il network aveva conquistato gli altri atenei dell’Ivy League, l’investitore Peter Thiel ci aveva scommesso i primi cinquecentomila dollari e c’era ormai un milione di profili. Tolto l’articolo dal nome, ad agosto del 2005 l’impresa diventava semplicemente “Facebook”. Avvolgi veloce e nel 2023, quando ormai Facebook è considerato – e da tempo – un social network considerato quasi morente, lontano dai giovani e certamente non cool, quasi in ossequio del volere del suo fondatore, tre miliardi di persone si loggano sulla piattaforma almeno una volta al mese. Fa più di un terzo della popolazione del pianeta.
A ottobre del 2003, il giovane nerd che sarebbe diventato re aveva già tentato una prima ascesa alla vetta del successo presentando FaceMash, un sito che accostava le foto di due ragazze random del campus – ottenute dal giovane Zuckerberg hackerando gli archivi dell’ateneo, in barba a qualsiasi norma sulla privacy – per far votare la più carina. Alle donne di Harvard, mirabile dictu, l’idea non era piaciuta; agli studenti maschi, moltissimo. Senonché dopo qualche giorno l’Università chiuse per decreto il sito, che aveva già iniziato ad attirare migliaia di visitatori.
Qualche anno fa, nel 2018, nei giorni della prima grande audizione di “Zuck” davanti al Congresso americano per lo scandalo Cambridge Analytica, un tweet beffardo e virale aveva accostato il volto madido di sudore e lo sguardo atterrito del fondatore di Facebook, incalzato dai senatori, alla didascalia: “La faccia di quando volevi solo un modo più veloce per classificare le ragazze in base all’aspetto e hai finito per instaurare un governo fascista nel Paese più potente del pianeta”. Fa ridere perché è vero, si direbbe con una battuta, o almeno è vero in parte, ma in una parte importante: d’altronde la luna di miele fra Donald Trump e il multimiliardario ex nerd di Harvard, finché è durata, è un fatto noto e commentato. Così come acclarata è la responsabilità di Facebook nell’aver fatto da sponda, brodo di coltura e grancassa globale degli slogan e i mezzucci di cui il trumpismo si è pasciuto, passando da oscure paginette con i post in caps lock a sistema internazionale di manipolazione dell’informazione.
Chiamato a rispondere al perché il suo figlio celebre permetteva al tycoon newyorkese di spargere ai quattro venti menzogne sull’imminente voto, nel 2020 Zuckerberg si era difeso dicendo che le compagnie digitali non dovrebbero essere “arbitri della verità”; in tante altre occasioni – non ultima, sui banchi del Senato – aveva ribadito e ribadirà che la sua è una compagnia tech, mica una media company: sì, è vero, ospitiamo tantissimi contenuti, ma mica li produciamo noi. Un atteggiamento pilatesco, quello di Mr. Facebook – e, per emanazione, di Facebook –, che ha segnato profondamente, e si può dire come niente altro, la vita pubblica degli ultimi vent’anni. Nessuno come Mark Zuckerberg ci ha abituato a donare giornalmente a una piattaforma, a un’app, a un tocco fugace di dita su uno schermo il nostro profondo senso del vivere in una società, nessuno ha influenzato allo stesso modo le sue rappresentazioni e i suoi limiti costitutivi.
Se anche volessimo chiudere un occhio – ma si può fare? – su come la logica pro-engagement, l’introduzione del like per la profilazione dell’utenza e il puntare tutte le chip sul potente News Feed algoritmico abbiano portato anche a guerre civili e morti in Paesi lontani, cui non abbiamo mai prestato attenzione (lo fa, e molto bene, il giornalista del New York Times Max Fisher nel suo The Chaos Machine), rimarrebbe che l’era Zuckerberg ha segnato il passaggio definitivo dal tardo-capitalismo all’economia dell’attenzione, dove tutto è sacrificabile per un pugno di reactions. Il 6 gennaio 2021, quando i seguaci più radicalizzati dell’ex presidente Trump si sono fatti largo nei corridoi del Senato di Washington, cercando dichiaratamente il linciaggio del vicepresidente Mike Pence perché convinti che Joe Biden avesse “rubato l’elezione” al loro beniamino, un dipendente di Facebook scriveva su un forum di discussione aziendale: “Abbiamo alimentato questo incendio per molto tempo. Ora non possiamo sorprenderci del fatto che sia fuori controllo”.
Di mille promesse, lo zuckerberghismo se ne è rimangiate almeno otto-novecento: dopo Cambridge Analytica, nel 2019, Mark The Great annunciava urbi et orbi la rivoluzione della privacy a Menlo Park, abiurando i messaggi archiviati coi metadati degli utenti in favore di un prossimo Sol dell’Avvenire fatto di messaggistica privata (non se ne è fatto nulla); per anni Facebook – e poi Meta – ha giurato di avere nella lotta alle fake news la sua stella polare (salvo poi, al primo vero chiaro di luna di congiuntura economica, l’anno scorso, prodigarsi in tagli verticali del comparto anti-disinformazione); aveva promesso autonomia gestionale a Instagram e WhatsApp prima di acquistarli, e sappiamo com’è andata.
Oggi Meta vive una fase di incertezza crepuscolare, dopo un rebranding in favore di un progetto, quello del Metaverso, che fin qui è stato un disastro economico e di immagine, un brusco taglio di più di ventimila dipendenti e una rilevanza dei suoi prodotti, già in calo da qualche anno, messa ulteriormente alla prova dalla concorrenza spietata di TikTok. Per quasi due decenni Facebook è stato un punto di riferimento culturale impossibile da ignorare, mentre oggi esiste anzitutto come simulacro di una fase più primitiva, forse più ingenua, dell’era del content e della viralità. Quando, di recente, ho chiesto all’aula magna di una scuola superiore di comunicare per alzata di mano chi avesse un account “Fb”, come si scriveva negli anni d’oro, su un centinaio di persone si sono alzate sei o sette mani.
Certo, forse non è abbastanza per decretare la fine del social network dei social network: e d’altronde tanti lo davano per morto già dieci anni fa, prima che venisse coinvolto nello scandalo di sottrazione di dati personali più imponente della storia, introducesse la personalizzazione algoritmica dei contenuti col News Feed e, last but not least, contribuisse a influenzare le elezioni di mezzo mondo. Come l’Hotel California immortalato dagli Eagles, esistono luoghi da cui puoi fare check-out senza però riuscire ad allontanartene per davvero: e questo “Zuck” lo sa.
“È quasi impossibile avviare un’azienda nella stanza del tuo dormitorio e farla crescere fino alle dimensioni odierne senza commettere qualche errore”, ha detto una volta: resta da capire se è accettabile che un’azienda nata nella stanza di un dormitorio si sia trovata nel giro di pochi anni con in mano le redini della comunicazione e della politica mondiale, perché da “qualche errore” in un campus elitario talvolta possono derivare immani tragedie nel resto del mondo. Ma meglio non piangere sul latte versato. “Live in the Future”, dice il rinnovato motto corporate di Meta: stavolta, però, è un futuro che sa meno di speranza e più di rassegnazione.