di Paolo Mossetti (esquire.com, 26 novembre 2020)
Si può ragionare da atei nella Chiesa del «D10s», dove tutti, dal sagrestano all’ultimo dei chierichetti, idolatrano un uomo che non solo stupiva con le sue magie sul campo ma distribuiva ai devoti la tanto agognata prospettiva di un riscatto e di estasi, mettendoli al centro del mondo e dalla parte giusta della Storia? È difficile se non impossibile, soprattutto quando nei coccodrilli mainstream di Diego Armando Maradona il suo flirtare con il comunismo, la sua frequentazione sbandierata con i Fidel Castro o gli Hugo Chavez, viene declassato con paternalismo e scherno, come se fosse un vizio paragonabile alla sua dipendenza dalla coca, a una perversione la cui natura sfugge al calcolo.
E che tuttavia non fa che confermare l’inevitabilità delle punizioni divine, di quel Dio mestizo a cui il capitano dell’Argentina aveva chiesto una mano in prestito per punire gli inglesi. È difficile ma tuttavia è necessario provarci, anche se la retorica del «campione della gente» viene spesso sequestrata e resa indigeribile da una borghesia capace delle stesse crudeltà e nefandezze di cui accusa i «potenti della terra» e i complotti di cui si sente vittima. Il fatto che Maradona fosse il giocatore più temuto nello sport più popolare sulla Terra aumenta esponenzialmente il peso delle sue preferenze politiche, e l’impatto dei simboli che aveva scelto di portare addosso. Ci si deve provare perché le scelte imponderabili di Maradona – in netto contrasto con il conformismo istituzionale e addomesticato dei Pelé e dei Platini – ci parlano della storia degli ultimi scampoli di Novecento: di come i movimenti non-allineati siano stati prima capaci di assestare colpi formidabili alle superpotenze, e poi schiacciati dal proprio arricchimento repentino, dalle proprie contraddizioni e vizi, e dagli odiatissimi vincoli sovranazionali.
Maradona come possibilità, alternativa, uomo che camusianamente si ribella dicendo «no», e al tempo stesso in quel «no» dice «sì» all’autolesionismo, agli eccessi, alla degradazione di sé, scompare nello stesso giorno in cui quattro anni fa scomparve Fidel Castro, che aveva conosciuto negli anni Ottanta e definito il «suo secondo padre». Anche se poi, a Cuba, ci sarebbe tornato per le più capitaliste delle addiction, quella per la polvere bianca e per il cibo monnezza: nella parentesi caraibica avrebbe lasciato una manciata di figli, randagi come i suoi accoppiamenti e riconosciuti, come altri prima di allora, solo sotto la minaccia degli avvocati. È risaputo che ai cafoni arricchiti non viene concessa la stessa grazia che spetta ai vizi dell’aristocrazia vera, dei sempre-integrati nell’ordine immutabile delle cose. Ma oggi, negli anni del MeToo e della revisione critica delle biografie su Internet, il mito del giocatore-funambolo ha un significato politico ancora più pesante, perché certifica che gli abusi di cui si è macchiato – a cominciare dalla nota violenza domestica e psicologica a cui sottoponeva le sue compagne – sono teoricamente tollerabili e capaci di un secondo piano rispetto a un contributo più vasto alle vite degli ultimi. Volete la rivoluzione? Accettatene le incongruenze, o tenetevi i Pelé e i Platini.
La scelta di appoggiare fin da subito la rivoluzione venezuelana e il suo bonario portabandiera in divisa fu anch’essa molto di più di una coincidenza, di un capriccio: è l’ennesimo sigillo su vite parallele ma legate dall’impossibilità di essere ciò che si voleva senza far soffrire qualcun altro – Maradona quelli che gli volevano bene o lo avvicinavano nei momenti di oscurità, Chavez i milioni di persone messe alla fame se non dalle sue politiche economiche certamente dall’embargo Usa. Ovviamente i tentativi di fare pedagogia con il terzomondismo di Maradona sono stati complicati e spesso fallimentari. Chi ne ha assorbito l’energia spesso l’ha diffusa più per prolungare la propria carriera e campare di luce riflessa, come cantastorie, che per decifrarla o instaurare un dialogo onesto con i credenti: si pensi a un giornalista affabile e dall’ego sconfinato come Gianni Minà, che da trent’anni – su per giù gli anni in cui Diego ha smesso di giocare – continua a salmodiare il ricordo di incontri avvenuti quando un altro mondo sembrava davvero possibile. O al regista Emir Kusturica, che nella biografia filmica dedicata al Numero 10 ci regala chicche memorabili – tra cui la canzone dedicata da Manu Chao al fantasista sovrappeso e in lacrime – ma fa di tutto per farci capire che il vero protagonista è lui, che sta dietro la macchina da presa, che è lui il Maradona del cinema.
È scontato pure leggere i due gol di Maradona all’Inghilterra come la coda lunga della decolonizzazione, in quel caso uno smacco clamoroso per la Thatcher – nemesi dei lavoratori sindacalizzati e delle sinistre –, anche se era stata proprio la sconfitta nelle Falkland per opera dei britannici a infliggere un colpo mortale alla dittatura argentina. E negli anni Novanta e Duemila l’immiserimento del Paese avrebbe portato moltissimi argentini a emigrare, a vedere la Britannia di Blair come un faro di coolness e a rinnegare le aspirazioni autarchiche di un tempo. Bello sognare ma quanto costa quel sogno?, sghignazzano gli incravattati impeccabili, i sacerdoti del realismo capitalista. Non lo vogliamo sapere, vogliamo la possibilità di farlo, rispondono gli adepti di Maradona. E forse qui il rischio è pensare a cosa sarebbe stato un Maradona politico sul serio, fondatore di blog e di movimenti in stile Beppe Grillo e sodale goffo di un Alessandro Di Battista, che oggi lo celebra facendolo sfilare tra gli eroi Marvel che si inchinano: meglio non pensarci, meglio lasciarlo lì dov’era.
La lucidità non è mai stata il suo forte e del resto raramente i profeti ne hanno bisogno. Gli rinfacciano di aver fatto figuracce dovunque sia stato nel post-ritiro dal calcio giocato. Come quando nel 2018, dopo aver preso per anni i soldi dei tiranni arabi, si era reinventato presidente di una squadra bielorussa, la Dinamo Brest. Si presentò dicendo: «Ho bei ricordi di Fidel Castro, Chavez, Gheddafi, conosco bene Putin e oggi voglio fare una foto con Lukashenko. Spero sarà nostro tifoso». Promise di rendere la squadra competitiva, durò meno di due mesi. Quando il figlio di Gheddafi, Saadi, accarezzò l’idea di diventare un calciatore professionale, assunse Maradona come consulente: fece giusto una sbiadita apparizione a Perugia prima di risultare positivo all’antidoping. Come tante altre cose toccate dalla mano de Dios che non erano un pallone, finì malissimo: torturato e imprigionato durante il caos libico, di lui non si sa più nulla. In fondo, è impossibile leggere il mito politico di Maradona con la logica liberale di un Rawls, cioè quella di darsi più regole che morale: lui era l’icona più fulgida del calcio al di là dei propri fallimenti; anche se spesso chi lo amava non aveva visto più che una manciata di partite per intero, ai Mondiali o in qualcun’altra delle rare occasioni che all’epoca prevedevano la diretta tv. Al contrario di Messi e Ronaldo, due automi, plasticamente curati, che vengono vivisezionati ogni secondo per decine di gare l’anno.
E lo stesso Napoli «proletario» e «periferico» che Maradona aveva scelto dopo gli anni infelici in Spagna, quello eternamente outsider, era pur sempre un club capace di pagare una cifra record per averlo, e dove militavano diversi giocatori della Nazionale. «Napoletani, gli italiani si ricordano di voi solo quando gli fa comodo, per il resto vi trattano da pezzenti, non tifate Italia, tifate per me». Con questa battuta scatenò un vero psicodramma nel Paese che sperava di coronare gli anni della crescita irresponsabile con una vittoria in casa, con una nazionale amatissima e una classe politica non ancora travolta da scandali e delegittimazione totale. Si può parlare di come il capitale calcistico allora non fosse concentrato come oggi. E di come l’Italia ancora non fosse finita vittima della «grande convergenza», che ha portato la stessa Inghilterra a seguire una parabola di declino: dalla perdita dell’Impero, globalizzazione, collasso della nazione.
Ciò che conta, aderente alla realtà o meno, è che il Maradona-capopopolo resta colui che ha azzerato differenze economiche e politiche nel calcio o ha almeno dato l’impressione di farlo. Colui che ha mostrato una Storia ancora in movimento, pur con tutte le sue pacchianate e cadute disastrose, prima che la Storia finisse. Le strade di Napoli sono la più fedele testimonianza di quell’incanto di breve durata: ogni quartiere del proletariato marginale, ogni nervo dell’economia informale cittadina gli conserva un ricordo, tre decenni dopo la sua partenza. Viola Carofalo, portavoce politico di Potere al Popolo, racconta di cosa è stato Maradona per chi gestisce un centro sociale del XXI secolo, mostrando indirettamente l’effimero connaturato a certe attività e la perenne mancanza di riconoscimento di un certo mutualismo disperato. «All’ex Opg Occupato – Je so’ pazzo c’è un murale che ritrae Diego e il Che. Un giorno uno dei bambini del quartiere che era venuto a giocare a pallone chiese: “E chill chi è?”. E un altro, prontissimo: “Chill? Chill è ’o tatuagg ’e Maradona!”». Pazzesco che sia morto nell’unico momento degli ultimi ottant’anni in cui Napoli non può scendere in piazza, e con gli stadi vuoti. Live is life, come la canzone degli Opus che risuonava durante il riscaldamento in campo più famoso di sempre.