Bono: «Sui rifugiati la settimana della svolta. Merkel nuovo simbolo morale dell’Europa»

Intervista al leader degli U2: «L’Unione è un concetto freddo, che impariamo a scuola, ma dentro non ci sono cuore e sangue. L’accoglienza che abbiamo visto resterà nella storia e non verrà dimenticata»

di Mario Calabresi e Massimo Russo (lastampa.it, 7 settembre 2015)

Alla fine del primo concerto europeo, quello di Torino che ha inaugurato il tour degli U2, Bono aveva fatto un tweet provocatorio: «Cosa volete? Un’Europa con il suo cuore e i suoi confini chiusi alla misericordia o un’Europa dal cuore aperto?». Non si sarebbe mai aspettato che la risposta arrivasse in così poco tempo come racconta in questa intervista esclusiva a La Stampa: «Questa settimana è successo qualcosa di incredibile, l’Europa non è più quella di sette giorni fa e Angela Merkel è diventata un simbolo morale per l’Europa. Alcune settimane fa si diceva fosse troppo dura con la Grecia, ora ha completamente ribaltato la propria immagine, nel senso dell’accoglienza. E i tedeschi si sono dimostrati molto più avanzati e aperti dei loro concittadini europei. Le immagini che abbiamo visto, con i bambini che portavano i loro orsacchiotti ai piccoli siriani, i genitori che donavano cibo e vestiti, resteranno nella storia d’Europa. Questi sono momenti che non verranno dimenticati. Potremmo davvero essere a un punto di svolta per quel che l’Europa vuole essere nel Ventunesimo secolo». Ci stiamo dirigendo in macchina nel centro di Milano, è l’ultima sera italiana per Bono, parla con entusiasmo e passione: «L’Europa è un pensiero che deve diventare un sentimento. È un concetto freddo, qualcosa che impariamo a scuola, sentiamo nei telegiornali, ma dentro non ci sono cuore e sangue. Questa è la nostra opportunità di mostrare al mondo e a noi stessi quel che l’Europa deve essere». Gli chiedo quanto abbia pesato in questa svolta la foto del piccolo Aylan morto su una spiaggia turca mentre cercava di raggiungere la Grecia. Resta in silenzio parecchio poi parla sottovoce, quasi che fosse l’unico modo per mostrare rispetto: «Sì, ha pesato. Non ci dovrebbe volere l’immagine di un bambino morto su una spiaggia per bucare la bolla europea. È una vergogna. Ma un’immagine può davvero dire di più di migliaia di parole, e dovremmo chiamare la reazione europea la “risposta Aylan”». Bono, 55 anni, leader degli U2, da anni si occupa di temi sociali: ha contribuito a fondare nel 2004 ONE Campaign, un’organizzazione internazionale non profit che fa campagne di sensibilizzazione sulla fame, la povertà estrema, l’Aids e le malattie curabili ma ancora mortali, dalla malaria alla tubercolosi, soprattutto in Africa. Ieri pomeriggio ha ripetuto che non gli piace il modo in cui si usa la parola migranti nel dibattito europeo di questi giorni. Gli ho chiesto se pensa allora che si debba usare la parola rifugiato per ogni migrante o se invece dovremmo distinguere tra le persone che scappano da una guerra e quelle che invece cercano di raggiungere l’Europa per ragioni economiche. «Io non ho creato una mia definizione, uso la definizione del dizionario. Esistono parole diverse: migranti, immigrati, rifugiati, richiedenti asilo, sono tutte definizioni specifiche. Quella che abbiamo sotto gli occhi non è una migrazione, sono persone che fuggono da una guerra. Paesi e città in Siria sono ridotti a macerie. In Gran Bretagna alcuni sono preoccupati che i nuovi arrivati vogliano utilizzare il nostro servizio sanitario. Ma queste non sono persone in cerca di servizio sanitario. Stanno scappando dalla guerra e amano la loro casa ma devono fuggire perché è ridotta in macerie. La mia frase preferita l’ha detta uno dei rifugiati, un ragazzo: “Non sono pericoloso, sono in pericolo”». Quando nell’estate del 2009 prima del G8 dell’Aquila pubblicammo un’edizione speciale della Stampa dedicata all’Africa insieme a One Campaign – in quell’occasione Bob Geldof fece il direttore di questo giornale per un giorno – proprio Bono ci suggerì di parlare di Africa non come un problema ma come un’opportunità. Cercando di evidenziare il meglio di quel continente, le conquiste e i miglioramenti. Gli chiedo cosa pensi dell’Africa oggi. «Sono appena tornato dall’Africa, ero lì la settimana scorsa. La nostra organizzazione, One, ha più associati in Africa che in Europa, 3,3 milioni, le loro voci saranno più forti delle nostre, e io spero che questo accada. È tempo che ciò accada. Il nostro movimento è stato a lungo troppo anziano, troppo bianco e troppo maschile, come me! Io guardo Malala e sento crescere la fede nel futuro. In Nigeria ho incontrato persone incredibili, che chiedono ai loro governi di cambiare. L’Africa è un’opportunità. Tutti pensano che il Ventunesimo secolo sia della Cina, eccetto i cinesi che invece vanno in Africa. Le statistiche demografiche dicono che per il 2050 la popolazione africana sarà 2,5 volte quella della Cina. Pensa a quel che ciò significa per l’arte, la musica, l’economia. Il nostro vicino di casa sta per diventare un gigante. Aiutarlo è un buon investimento. Che verrà ripagato in modi che non riusciamo neppure a immaginare. Il momento è ora, ed è anche eccitante. Lagos fa sembrare New York una città sonnacchiosa. È come una botta di adrenalina al petto, come Uma Thurman in Pulp Fiction». Quest’anno One ha prodotto un documento dal titolo La povertà è sessista e ha raccolto le firme per una lettera aperta che è stata mandata ad Angela Merkel prima del G7 chiedendole di focalizzare gli sforzi per lo sviluppo sulle donne. Perché sono così importanti nella lotta contro la povertà estrema e la fame? «Le donne portano il peso maggiore della povertà estrema. Sono responsabili dell’approvvigionamento alimentare. Cercano di accudire i bambini e sono gli esseri più in pericolo. Vulnerabili. Non c’è da meravigliarsi che siano proprio loro le interpreti migliori del cambiamento». Bono, dopo i due concerti torinesi, ha raggiunto a Milano Matteo Renzi per partecipare ad Expo a un evento organizzato da Italia e Irlanda di sostegno alle iniziative del World Food Programme intitolato: «Dipende da me: come il mondo può mettere fine alla fame in una generazione». Qui, accolto da un’ovazione ha scandito il suo credo: «Possiamo risolvere il problema della fame e della povertà nel mondo: sì, assolutamente, c’è cibo a sufficienza nel mondo per risolvere il problema, quella che manca è la volontà». Accanto a lui c’era il premier italiano che ha preso l’impegno di tornare ad essere entro il 2017 al quarto posto (oggi siamo gli ultimi) tra i Paesi del G7 per finanziamenti al Fondo Globale contro la povertà e per la salute. Quando saliamo in macchina gli chiedo se ci crede e lui è positivo: «Va dato credito al primo ministro Renzi di aver parlato per primo della necessità di affrontare in ambito europeo il problema dei migranti e dei rifugiati, ma è stato sovrastato da chi lo ha giudicato ridicolo. Ma non lo era, era l’unica risposta sensata, corretta. Il cambiamento si vede fin dal linguaggio del corpo. Un Paese che adotta buone decisioni cambia il proprio linguaggio del corpo. Sono triste che all’inizio della crisi Cameron non abbia mostrato la stessa attitudine. Quanto all’impegno finanziario italiano, Renzi mi sembra davvero intenzionato a combattere questa battaglia, mi piace il suo “italian ego” quando dice “non saremo i settimi nel G7 riguardo le politiche sulla povertà ma dobbiamo essere quarti”. L’Italia è un grande Paese, ci ha dato il Rinascimento, le strade e la compassione e questo non può essere dimenticato. Non conosco molto Renzi, ma quello che ho visto fino ad ora mi piace». Nel 2009, per l’edizione speciale sull’Africa organizzammo un’intervista di Geldof a Berlusconi e tra loro furono scintille. One ha molto criticato l’ex premier italiano per il suo mancato impegno nel fondo contro la povertà ma oggi vuole ricordarne anche un’altra faccia: «Perché tutto è partito da voi. Fu Berlusconi nel G8 di Genova a voler il fondo contro la povertà, anche se dopo non lo finanziò a dovere. Ma bisogna dargli il merito dell’idea». Proprio Bob Geldof si è offerto di ospitare quattro famiglie di rifugiati nelle sue case e il Papa ha chiesto che ogni parrocchia dia ospitalità a una famiglia, gli chiedo cosa pensi di fare lui. «Ne stiamo parlando a casa. Sarebbe una cosa ottima per i ragazzi. È complicato, bisogna capire come farli entrare nel nostro Paese (Bono vive poco distante da Dublino), ma penso che come dichiarazione di solidarietà sia importante. La nostra casa è a disposizione. Il Papa che apre le chiese compie un gesto pratico, che è simbolico del suo impegno di ritornare alla chiesa dei poveri. Nelle Scritture ci sono oltre 2mila passi sui poveri. Gesù parla di giudizio universale solo una volta e non lo fa a proposito dei comportamenti sessuali, ma su come trattiamo i poveri». Siamo diretti in piazza del Duomo a Milano, siamo quasi in centro e allora chiede alla macchina di rallentare perché ha voglia di parlare, è naturale che Papa Francesco lo ispiri e così il Giubileo: «Questo Papa è un poeta, con le parole e con i simboli. Sono felice di poter provare a lavorare con lui come facemmo nella campagna sulla cancellazione del debito con Giovanni Paolo II che mostrò una leadership incredibile. Grazie alla cancellazione del debito 54 milioni di ragazzi sono riusciti ad andare a scuola. Anche se poi la Chiesa ha sbagliato a non rivendicarla a sé. Questo Giubileo sarà di nuovo un fenomeno mondiale. È il Giubileo della Misericordia, che può essere un concetto astratto, ma la misericordia articolata in azioni di cambiamento, delle persone e della politica può fare la differenza». Si ferma un momento, si mette a ridere e punta il dito: «Guarda che non sto facendo proselitismo, io sono cattolico solo per metà, mio padre era cattolico e mia madre protestante». Questo mese si terrà a New York un vertice delle Nazioni Unite in cui verranno stabiliti i nuovi obiettivi di sviluppo per i prossimi 15 anni. Questi obiettivi sostituiranno i famosi obiettivi del millennio e saranno basati su un nuovo approccio: un’agenda più larga che conterrà anche temi economici e sociali e i problemi del cambiamento climatico. Non si può più ragionare soltanto di problemi medici, della fame e della povertà senza affrontare desertificazione, mancanza d’acqua o analfabetismo. È un approccio che Bono e la sua organizzazione sposano completamente: «One ha obiettivi globali, che sono estremamente utili per misurare i nostri progressi. Ma sul piano personale sono davvero coinvolto da quel che stiamo cercando di fare contro la corruzione, che uccide più bambini di Aids, malaria e tubercolosi messe insieme. Se fermiamo la corruzione ci renderemo conto che l’Africa è ricca, la sua povertà è dovuta alla cattiva gestione delle risorse. Sono convinto che quando i nuovi africani spodesteranno i vecchi vedremo il cambiamento. Uno dei modi in cui One sta cercando di cambiare le cose riguarda l’industria del petrolio e del gas. C’è un nuovo detto in Africa: “Prega che non scoprano il petrolio”. Non dovrebbe essere così. L’Italia in Africa ha un’azienda, l’Eni, che ha una grande responsabilità. Da quel che capisco è intenzionata ad agire con correttezza. Bene, la cosa più importante che può fare è impegnarsi a rispettare l’agenda della trasparenza, si chiama “pubblica quel che hai pagato”. Si tratta di dichiarare quel che hai pagato per i diritti di estrazione, perché in quell’opacità prospera la corruzione. Non dev’essere un’adesione formale ma di sostanza. Si può trasformare in uno stimolo enorme anche per gli Stati Uniti. George Soros ci ha aiutato a portare la questione al congresso, ma ora alcune lobby americane stanno cercando di bloccarla. L’Eni potrebbe avere un ruolo enorme nel dimostrare che si può fare. La lotta alla corruzione è il tema che in questo momento mi appassiona di più». Altro tema fondamentale per Bono è la ricostituzione dei fondi del World Food Programme, che ogni anno non sa su quali finanziamenti potrà contare per l’anno successivo: «Stiamo lavorando su questo con Red (un’organizzazione creata 9 anni fa per combattere l’Aids) con l’obiettivo di coinvolgere altre aziende oltre ad Apple, Starbucks e a quelle che ci hanno sostenuto finora. Sarebbe meraviglioso se anche imprese italiane volessero far parte di questo sforzo. Oggi One in Italia vuole crescere come accaduto in Germania dove abbiamo 150mila associati. Il vostro Paese potrebbe avere la leadership su questi temi». Siamo arrivati al Museo del Novecento, l’intervista è finita ma ha ancora voglia di parlare dei suoi modelli africani, lui che ha sempre avuto Nelson Mandela come fonte di ispirazione. Gli chiedo cosa direbbe Madiba di questa crisi di rifugiati, di questo fiume di gente che parte dall’Africa verso Europa? Aspetta un po’ prima di rispondere, non vuole improvvisare: «So cosa risponderebbe il suo amico più caro, Desmond Tutu. Direbbe che il piccolo Aylan, annegato sulla spiaggia, è Gesù. E che ogni persona che ha perso tutto porta in sé la divinità. Il modo in cui trattiamo queste persone è il modo in cui trattiamo Gesù Cristo. Mandela invece direbbe (e lo imita con la voce): “È sempre impossibile finché non si fa”».

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