di Simonetta Sciandivasci (ilfoglio.it, 26 ottobre 2019)
Beyoncé val bene una messa. E, di più, di lei si può fare liturgia, predicazione evangelica, catechismo. La parola di Queen Bey, desunta da vita e opere sue, ha ispirato la Bey Mass, che è una specie di messa pop, ma pure un po’ seduta d’autocoscienza, catechesi, incontro tra fedeli, neofiti, curiosi, illusi, disillusi.
Ci sono cantanti, ballerine, officianti, si leggono le Sacre Scritture, si ascoltano Formation e Flaws and All, i pezzi più empowerment di B., ci si confronta, si parla della propria vita, e naturalmente di quella di B. Obiettivi: indagare come il colore della pelle e il genere influenzano la vita delle afroamericane e far sentire le partecipanti accolte, benvolute, capaci di emanciparsi da un consesso sociale che le respinge, per poi rientrarci e cambiarlo, aggiustarlo, lavorare per la prosperità propria e altrui. L’idea è di due studiose di Teologia e Black Studies, Yolanda Norton e H. Eugene Farlough, che l’anno scorso organizzarono la prima Bey Mass alla Grace Cathedral di San Francisco durante un incontro che solitamente non richiamava più di una cinquantina di fedeli: se ne presentarono novecento, alcuni filmarono l’appuntamento, lo condivisero su YouTube, e impazzirono tutti. Ne nacque una specie di movimento, questa settimana ne ha scritto il New York Times perché ci saranno le prime due Bey Mass a New York.
“Nella musica di Beyoncé c’è lo stesso messaggio di ospitalità e inclusione dei Vangeli, ed è espresso con la medesima radicalità”, ha detto Norton, specificando che l’intento non è venerare B., bensì servirsene per esemplificare il messaggio cristiano incrociandolo con quello dello Womanism, il femminismo nero, che ha sempre accusato quello bianco di essere un movimento di privilegiate borghesi disinteressate alle donne ai margini, alle ultime, concentrate quasi esclusivamente sul proprio personale politico. Beyoncé, d’altronde, incarna il femminismo intersezionale, quello che ha accolto le istanze di donne di colore e queer, cercando di ampliare la prospettiva di quello tradizionale (bianco, appunto), perché ha un corpo da meticcia e perché prima di diventare chi è ha subìto la segregazione, il razzismo, la disparità – “Il suo messaggio di empowerment nasce da un vissuto travagliato”, ha detto Norton.
Beyoncé è estranea al trionfalismo e alla favola, e s’inserisce nella corposa tradizione di musiciste nere, Nina Simone in testa, politicamente attive o, almeno, politicamente significative per i diritti dei neri. L’effetto secondario, diciamo incidentale, ma non meno importante, è che la Bey Mass avvicina alla chiesa chi se ne era allontanato o non ci si era mai avvicinato, sentendosene respinto (è il caso dei transgender, uno dei quali ha detto al New York Times di aver cominciato a interessarsi alla religione cristiana dopo uno di questi incontri). Beyoncé emana il calore dell’inclusione a basso costo, la si usa per incrementare i fedeli di un credo cristiano parecchio ibridato, dal quale sono quasi assenti i doveri, le rinunce, l’ortodossia. Però funziona.
La religione ha bisogno di influencer e le donne gliene offrono. La storica Kate Bowler ha appena pubblicato un libro, The Preacher’s Wife: The precarious of evenagelical woman celebrities, dove racconta come le mogli dei pastori protestanti lavorino alla credibilità dei propri mariti, rafforzandola. Molti pastori non dicono sermone se non le hanno di fianco. Le semplici fedeli, invece, sono sempre più attive nell’evangelizzazione. Si organizzano in comitati, tengono conferenze, podcast, programmi tv, dirette FaceBook. Tentano di portare un messaggio di fede che sia inclusivo, sebbene debbano rispondere a canoni (anche estetici) piuttosto rigidi. La Bey Mass per loro sarebbe impensabile: nessuna potrebbe mai raccontare un’esperienza di fallimento, perdizione, debolezza. Bowler ha detto a Slate che se mai una donna nera dovesse tenere un sermone sui problemi di inclusione razziale nella sua vita, verrebbe allontanata per sempre: possono farlo, e poco, soltanto le bianche.
Non conta. Loro accettano, lavorano piano, per Dio, per gli altri, in fondo consapevoli di quel versetto di Queen Bey che fa: “Who run the world? Girl!”.