A dieci anni dalla morte, un libro raccoglie i testi del grande sociologo. Che ci regala parecchi spunti postumi per interpretare il nostro presente
di Massimiliano Panarari («Il Venerdì», suppl. a «la Repubblica», 14 aprile 2017)
Jean Baudrillard (1929-2007) è stato un pensatore molto eterodosso, quasi inclassificabile. Un sociologo, un filosofo, un mediologo e, di sicuro – e forse soprattutto – quello che in Francia si definirebbe un “moralista”, ossia un intellettuale interessato a riflettere in maniera critica sull’attualità e il proprio tempo.L’opportunità di ritornare alle sue riflessioni – mai scontate, e che per imporsi nel dibattito si avvalevano spesso di una “strategia discorsiva” paradossale e ironica (influenzata dal dada, dal surrealismo e dalla patafisica) – viene dal decennale della morte; un’occasione che ha visto l’Università Iulm di Milano dedicargli un grande convegno (Jean Baudrillard e la teoria dei media), con la partecipazione di decine di studiosi, tra cui i sociologi Giovanni Boccia Artieri, Alberto Abruzzese e Vanni Codeluppi. Proprio Codeluppi è il curatore di un volume, intitolato Pornografia del terrorismo (Franco Angeli, pp. 80, euro 14) in cui sono raccolti i testi baudrillardiani sul tema, al centro di una meditazione durata tre decenni. E che ricorreva largamente, per spiegare un fenomeno incomprensibile da parte della visione razionalista dell’Occidente, all’antropologia. Quella di Marcel Mauss e di Georges Bataille, a partire dalle cui opere Baudrillard aveva elaborato la nozione di “scambio simbolico”, che rompeva con lo scambio utilitaristico (basato sul profitto) delle economie capitalistiche. Una situazione che, ai giorni nostri, è rimasta possibile solo nelle tribù primitive o, appunto, per i terroristi, i quali nella lettura baudrillardiana “regalano” (e sprecano) la loro esistenza senza averne un’utilità diretta in cambio. Il terrorismo è, altresì, un «reality show dell’orrore», e agisce come la pornografia e l’osceno, che tolgono la distanza (tipica della messa in scena, mantenutasi per secoli) tra il racconto della realtà e il pubblico, facendosi in tal modo reali. Anzi, più reali del reale – “iperreali” – al punto da sotterrare la realtà che, una volta esibita, sembra non essere più “vera”. È il “delitto perfetto”, per cui la tv e i media hanno finito per «sterminare» la realtà, proiettandoci in un mondo di simulacri (ed ecco Baudrillard pensatore utilissimo, e molto in anticipo, per capire gli effetti socio-culturali del virtuale e della rete). Molte sono state le sue chiavi di lettura della postmodernità. Da La società dei consumi (1970), nella quale identificava il marketing come nuova ideologia, fino alla comprensione della rivoluzione rappresentata dal passaggio dalle società moderne (fondate sulla produzione) a quelle postmoderne edificate sulla “simulazione” (la riproduzione della realtà attraverso i mezzi di comunicazione di massa elettronici e cibernetici), il sociologo francese ci dice moltissimo sul nostro presente. Pure a costo di “giocare Baudrillard contro Baudrillard” (quando propone tesi completamente paradossali). Ed è per questo che, da The Truman Show a David Lynch, da Matrix a Minority Report, piace tanto ai registi (anche se, a volte, lo hanno frainteso).