di Giulio Meotti (ilfoglio.it, 1° ottobre 2018)
Venne al mondo come Shahnour Vaghinag Aznavourian, per cambiarlo in Charles Aznavour, figlio dei primi laceri boat-people che negli anni Venti fuggirono il genocidio turco sbarcando a Marsiglia. «Sono indissociabilmente francese e armeno», diceva di sé Aznavour, morto lunedì a 94 anni.
Era nato nel Quartiere Latino di Parigi da genitori armeni, scampati fortunosamente ai massacri turchi del 1912. Sua sorella Aida, d’un anno e mezzo più vecchia, era nata in Grecia, mentre la famiglia profuga vagava in cerca d’asilo. Questi drammatici antefatti avrebbero lasciato segni profondi nel carattere dell’artista, facendone un ambasciatore itinerante della Repubblica Armena. Accanto alla sterminata produzione musicale, Aznavour era speciale per certe sue prese di posizione che ne facevano una rarità nel mondo artistico. Come quando, nel 2013, appose la sua firma al manifesto dei salauds, i maiali, i mascalzoni, che denunciarono la criminalizzazione per legge della prostituzione: «Pensiamo che ciascuno abbia il diritto di vendere liberamente le sue virtù, e persino di trovarlo appagante, e rifiutiamo che dei deputati emanino norme sui nostri desideri e sui nostri piaceri», si leggeva. Cinque anni dopo il #MeToo avrebbe travolto tutto. In quell’appello c’era anche l’eco della biografia musicale di Aznavour: per anni, le sue canzoni erano state giudicate “immorali” e la radio gliene rifiutava più della metà (era stata Edith Piaf a incoraggiarlo a cantare). Nel 2014 Aznavour propose una specie di ponte aereo per salvare i cristiani d’Oriente minacciati di morte dall’Isis, per portarli in Europa e insediarli nei villaggi «che devono essere ripopolati». «Sono preoccupato per questa popolazione che è massacrabile!», disse il cantante a novant’anni. Fu uno dei pochi musicisti di fama mondiale a parlare, in effetti, di quel genocidio bianco in corso. «Questi villaggi devono essere ripopolati! Il municipio esiste ancora, l’ufficio postale pure, la chiesa è vuota…», disse Aznavour. «Non puoi vivere così, da egoista, devi fare qualcosa!». Lo scorso aprile, Aznavour ha firmato un altro appello che ha fatto discutere: «La Francia è diventata teatro di un mortale antisemitismo. Questo terrore si diffonde, provocando sia la condanna popolare sia il silenzio mediatico». Si apriva così la presa di posizione francese più importante contro il nuovo antisemitismo. L’appello, pubblicato su Le Parisien e firmato da trecento personalità fra cui il cantante armeno, era scaturito dopo l’uccisione a Parigi di Mireille Knoll. «Quando un primo ministro all’Assemblea nazionale dichiara, tra gli applausi del Paese, che la Francia senza gli ebrei non è più la Francia, non è una bella frase di consolazione ma un avvertimento solenne: la nostra storia europea, per ragioni geografiche, religiose, filosofiche, giuridiche, è profondamente legata a varie culture tra le quali il pensiero ebraico. Undici ebrei sono stati assassinati – e alcuni torturati – perché ebrei, da islamisti radicali. Diceva di «cantare i sentimenti comuni», Aznavour. Non travestiva l’amore con ricchi abiti romantici. Non prometteva lieti fini mielati. Cantava la tristezza dell’esistenza e milioni ci trovavano un senso. Per questo ci mancherà, oltre che per la sua capacità di fregarsene altamente e di assumere posizioni che si portano sempre molto poco nel dorato mondo dell’intrattenimento.