(ilpost.it, 3 ottobre 2021)
Sabato sera, dopo la chiusura dei seggi elettorali in Islanda, è stata celebrata per qualche ora l’elezione di un parlamento a maggioranza femminile. La notizia è stata poi smentita con il riconteggio dei voti, ma la grande attenzione con cui nel frattempo la storia era stata raccontata dai media ha mostrato quanto sarebbe stato eccezionale e unico un parlamento di un Paese europeo (ma anche di un Paese fuori dall’Europa) con più donne che uomini. Pochi giorni dopo dinamiche simili si sono ripetute quando, in Tunisia, il presidente Kais Saied ha incaricato per formare il governo la prima donna nella storia della Tunisia e la prima in assoluto nel mondo arabo. Anche in questo caso, però, la notizia è da ridimensionare.
I poteri della nuova prima ministra, se confermata, saranno contenuti e molto limitati dal crescente autoritarismo del presidente tunisino. La questione della parità di genere in politica non è certo nuova, e nel corso degli anni diversi Paesi hanno provato a inserire dei meccanismi per garantire una maggiore presenza femminile nei propri parlamenti e nei propri governi. Nel misurare la parità di genere nella politica di un Paese, però, non ci si può limitare a una questione quantitativa. Occupare molti seggi non basta, anche se è certamente un passo avanti e in certi casi una conquista: ci sono Paesi in cui i parlamenti contano così poco che la parità di genere, nella loro composizione, ha poca influenza sulle politiche nazionali; altri in cui, nonostante si sia andati vicini alla parità a livello quantitativo, le posizioni di potere più importanti – i capi di Stato e di governo, o i principali ministeri – hanno continuato a essere occupati sistematicamente da uomini; altri Paesi ancora in cui, nonostante la presenza di donne in posizioni importanti, le politiche destinate a far avanzare i diritti delle donne sono state poche o inefficaci.
La presenza di donne in politica è stata oggetto di un recente rapporto delle Nazioni Unite e di diverse analisi fatte da importanti centri di ricerca, tra cui il centro studi Council on Foreign Relations. Le conclusioni sono simili: in politica la parità di genere è ancora molto lontana, anche se, come mostrato in un grafico della Banca mondiale, il numero delle donne che occupano seggi all’interno dei parlamenti è considerevolmente cresciuto negli ultimi quindici anni. Come detto, la prima cosa da tenere a mente è che il numero delle donne in politica non è un dato di per sé esaustivo (ma, come detto, è un indicatore comunque importante: i Paesi che non prevedono donne in politica sono anche i Paesi che garantiscono meno diritti alle donne, come l’Afghanistan talebano o il regime autoritario in Arabia Saudita). Lo dimostrano i casi di Cuba e Ruanda, cioè gli unici due Paesi al mondo che hanno più donne che uomini in parlamento.
A Cuba l’organizzazione del sistema politico è tale per cui la presenza di un maggior numero di donne in parlamento (circa il 53 per cento) non ha praticamente alcun impatto sulla vita politica del Paese. Cuba è governata da un regime comunista: il posto dove si prendono le decisioni importanti non è il parlamento, che si riunisce solo due volte l’anno per qualche giorno, ma il partito; e all’interno del partito le donne sono solo il 7 per cento del totale. Un discorso simile vale per il Ruanda, il Paese al mondo con più donne in parlamento, che però non si può certo considerare il più progressista in termini di parità di genere in politica. L’elevato numero di donne è infatti il risultato di una decisione unilaterale del presidente ruandese Paul Kagame del 2003, che destinò da un giorno all’altro almeno il 30 per cento dei seggi del parlamento alle donne. La decisione, presa con scopi propagandistici, non fu però accompagnata da una vera volontà di assegnare potere politico alle donne, e non produsse un reale cambiamento culturale rispetto alla parità di genere. C’è inoltre da considerare che il Ruanda non è una democrazia: Kagame governa in maniera autoritaria e il parlamento ha un ruolo estremamente limitato.
Un altro caso particolare e a suo modo interessante è il Messico, dove negli ultimi sei anni il numero di donne in politica è aumentato in maniera significativa: per la prima volta nella storia del Paese, il 50 per cento dei seggi della Camera bassa è oggi occupato da donne, e donne governano quasi un quarto dei 32 Stati che compongono il Messico (un numero superiore rispetto al passato). Questi aumenti non si sono però ancora tradotti in uno spostamento reale del potere verso le donne: i partiti, per esempio, sono guidati da leader maschi, e spesso questi leader decidono di candidare le donne del proprio partito in distretti periferici o poco rilevanti, «provando ad aggirare le leggi» introdotte per garantire la rappresentanza femminile, ha scritto il Washington Post. L’operato del governo guidato da Andrés Manuel López Obrador, inoltre, è stato giudicato largamente insufficiente in questo ambito: López Obrador, che aveva promesso un Paese più femminista, è stato per esempio accusato di aver appoggiato la candidatura di un politico accusato di stupro e violenza sessuale.
Il tema della parità di genere in politica è considerato sempre più urgente anche in Europa, dove però, nonostante i miglioramenti registrati in molti Paesi negli ultimi anni, le donne sono ancora una minoranza, sia nei parlamenti sia nei governi. Ci sono comunque differenze, tra un Paese e l’altro. Uno dei Paesi più virtuosi è la Finlandia. Nel 2003 fu eletta per la prima volta una prima ministra, Anneli Jäätteenmäki, e nel 2000 la prima presidente, Tarja Halonen. Durante il mandato di Jäätteenmäki in particolare vennero approvate diverse misure che migliorarono considerevolmente la condizione delle donne, e che riguardavano i congedi parentali, il mondo del lavoro e la retribuzione. Secondo i dati dell’Atlante delle donne della geografa femminista Joni Seager, la Finlandia è anche il Paese con più donne in ruoli ministeriali al mondo. Anche all’interno delle istituzioni europee si sono fatti dei passi avanti. Negli ultimi due anni, per esempio, è di fatto aumentato il numero di donne con ruoli decisionali all’interno della Commissione europea: nello stesso periodo il ruolo di presidente della Commissione è stato occupato da Ursula von der Leyen, prima donna di sempre ad avere questo incarico.
Ci sono però molti Paesi europei in cui è ancora difficile trovare donne nelle principali posizioni di potere, soprattutto nei più importanti incarichi di governo: è il caso dell’Italia, dove le cose sono migliorate nel corso degli anni ma i risultati sono considerati ancora ampiamente insufficienti. Nella politica italiana il numero di parlamentari donne ha cominciato a crescere soprattutto dal 2005 in poi (durante il terzo governo guidato da Silvio Berlusconi), con qualche momento di stallo e lieve calo. La crescita maggiore è avvenuta con il governo di Mario Monti, in carica dal novembre 2011 all’aprile 2013. Questa crescita, però, non è sempre corrisposta a un aumento di donne con incarichi rilevanti. Il numero di ministre e sottosegretarie è cresciuto in modo molto più lieve di quello delle donne parlamentari, e con incarichi più spesso legati ai settori sociali, alla salute e all’istruzione, considerati più “femminili” rispetto ad altri, come ad esempio gli Esteri, la Difesa, o l’Economia e le Finanze. Non è un problema che riguarda solo l’Italia, ma anche altri Paesi in Europa e nel mondo. In Italia il ministero della Difesa è stato assegnato per la prima volta a una donna solo nel 2014 col governo di Matteo Renzi, che lo ha assegnato a Roberta Pinotti, e l’unica altra ministra della Difesa fino ad ora è stata Elisabetta Trenta, col governo di Giuseppe Conte nato nel 2018.
Anche da questo punto di vista, l’Italia non è troppo diversa da altri Paesi europei: alcuni sono più virtuosi, come la Finlandia o la Francia, che hanno avuto le loro prime ministre della Difesa rispettivamente nel 1990 e nel 2002, mentre altri hanno avuto tempi simili all’Italia (Germania e Belgio, per esempio). In Italia, poi, il ministero degli Esteri è stato guidato solo da tre donne: Susanna Agnelli tra il 1995 e il 1996, durante il governo di Lamberto Dini, e poi Emma Bonino e Federica Mogherini, rispettivamente coi governi di Enrico Letta e Matteo Renzi nati nel 2013 e nel 2014. Il governo Renzi è anche l’unico caso nella storia repubblicana in cui i ministeri di Difesa ed Esteri sono stati contemporaneamente gestiti da due donne. Da questo punto di vista l’Italia è stata più paritaria della Germania, che non ha mai avuto una ministra degli Esteri (ma che ha avuto per sedici anni una donna a capo del governo, cosa mai successa in Italia), e della Francia, che ne ha avuta solo una.
In Italia, infine, nessuna donna ha mai gestito il ministero dell’Economia e delle Finanze (contrariamente a quanto è invece accaduto in altri Paesi europei, come Germania, Francia, Svezia e Finlandia). Non è successo neanche col governo Draghi, che è quello con più donne nella storia della Repubblica italiana (tenendo conto sia di ministre sia di sottosegretarie, e in cui comunque le donne sono in minoranza), e in cui Difesa, Esteri ed Economia sono comunque gestiti da uomini. Draghi, però, ha assegnato i ministeri di Interno e Giustizia, più raramente assegnati a donne (questa è la terza volta dall’inizio della Repubblica italiana), a Luciana Lamorgese e Marta Cartabia. Nessuna donna, infine, è mai stata presidente del Consiglio o della Repubblica. La scelta sistematica di persone di sesso maschile per ruoli dirigenziali, tra l’altro, è un problema che riguarda anche e soprattutto i partiti più progressisti del Paese. Il principale partito di sinistra italiano, il Partito Democratico, non ha mai avuto una segretaria donna e anche di recente ci sono state ampie discussioni a proposito del fatto che non abbia mai lavorato a fondo sulla partecipazione politica delle donne.
Infine, il fatto che ci siano molte donne in un parlamento o che abbiano incarichi governativi non garantisce che le loro politiche portino a una maggiore parità di genere o a una maggiore libertà per le donne stesse: anche in Europa ci sono note politiche donne che sostengono posizioni molto tradizionaliste. Esistono anche Paesi che hanno avuto leader donne in posizioni di rilievo senza che questo portasse a un progresso culturale sulla parità di genere. In Argentina, per esempio, Cristina Fernández de Kirchner è stata presidente dal 2007 al 2015: è stata influente e progressista sotto molti punti di vista, in un Paese in cui tra l’altro il presidente ha il potere esecutivo. Eppure una questione abbastanza basilare come la legalizzazione dell’aborto è stata ottenuta solo l’anno scorso (con Kirchner come vicepresidente), e celebrata dai movimenti femministi come un evento storico.