
di Paola Palazzo (linkiesta.it, 5 aprile 2025)
Prima che i social media diventassero piazze virtuali in cui condividere opinioni, proteste e dichiarazioni d’intenti, era il cotone a farsi portavoce dei manifesti più dissonanti. Le celebrity, spesso sotto assedio mediatico, trovavano nelle t-shirt stampate un canale diretto, immediato e visivo per rispondere ai gossip e rivendicare il proprio punto di vista.
È così che sono nate le clap back t-shirt, dove “clap back” indica una risposta ironica o provocatoria a un attacco. Chi ha attraversato l’adolescenza nei primi anni Duemila ricorderà alcuni di questi atti semiseri di protesta: la maglietta “Skinny Bitch” indossata da Lindsday Lohan come replica al continuo bodyshaming dei tabloid, oppure la t-shirt “Dump Him” sfoggiata da Britney Spears al culmine della rottura con Justin Timberlake, quando le voci di un nuovo flirt del cantante già rimbalzavano sulla stampa.
Quella delle slogan tee è una tendenza che non si è mai spenta del tutto e che negli ultimi anni è tornata con forza, spinta anche dal revival estetico Y2K che ha riportato nei nostri guardaroba look e codici d’inizio millennio, così come da un bisogno crescente di rivendicare e politicizzare la propria identità. Si pensi a quando Hailey Bieber scelse di farsi paparazzare con la scritta “Nepo Baby” stampata sul petto, appropriandosi di un termine usato in senso critico verso chi deve parte del proprio successo alla famiglia d’origine e alle connessioni privilegiate che contano in determinati settori. Della serie: l’etichetta ormai c’è, tanto vale usarla e archiviare così la questione.
Ma di recente questa nuova ondata ha cambiato pelle: se prima a indossare le slogan tee erano per lo più star e protagonisti della scena pubblica — con le dovute eccezioni, come Alexander McQueen che chiuse la sfilata Primavera-Estate 2006 con la t-shirt “We love you Kate”, in segno di solidarietà verso Kate Moss, travolta dallo scandalo della cocaina —, ora sono i designer stessi a lanciare messaggi stampati su felpe e t-shirt che non solo creano, ma indossano, trasformando il momento finale della sfilata in una dichiarazione.
È il caso di Willy Chavarria, che, al termine del suo show di debutto alla settimana della moda uomo di Parigi, è comparso indossando una felpa nera con su scritto “How we love is who we are”. Il messaggio è frutto di una collaborazione con Tinder e Human Rights Campaign, in risposta al progressivo aumento delle leggi anti-Lgtbq+ nel mondo. Anche Adrian Appiolaza ha chiuso la sfilata donna Autunno-Inverno 2025/26 di Moschino con una dichiarazione stampata sul proprio petto: dopo aver mandato in passerella la modella Alex Consani con una t-shirt “SOS – Save Our Sphere” e delle borse ispirate ai sacchi della spazzatura, il direttore creativo ha salutato il pubblico indossando una felpa su cui campeggiava la frase “Don’t be silent”.
E ancora, alla London Fashion Week, Conner Ives ha concluso la sua presentazione indossando una maglietta bianca con la scritta “Protect the dolls”, in riferimento alle donne transgender chiamate “dolls” nello slang della ballroom culture. Un gesto arrivato pochi giorni dopo che Hunter Schafer, attrice e modella transgender statunitense, che in passato ha più volte indossato capi del brand, aveva condiviso sui suoi profili social un video in cui denunciava la modifica del genere sul proprio passaporto, conseguenza diretta delle politiche restrittive imposte dall’amministrazione Trump.
Quando il clima si fa incandescente – e oggi lo è più che mai – la moda risponde. O almeno ci prova. E se più voci iniziano a farsi sentire, si può parlare di fenomeno. Ma è davvero in atto una stagione di impegno politico per il settore? Secondo la giornalista Amy Odell, autrice di un recente articolo sul New York Times intitolato Fashion has given up on being woke, and that’s OK (La moda ha smesso di essere Woke, e va bene così), la risposta è no.
Moda e attivismo si sfiorano da sempre, ma difficilmente parlano la stessa lingua. Basti ricordare di quando Karl Lagerfeld, nel 2014, trasformò la passerella ready-to-waer di Chanel in una parata (fake) di modelle-manifestanti, armate di megafoni e cartelli che recitavano slogan quali “Fate la moda non la guerra” o “I diritti delle donne sono più che giusti”. Frasi di natura vaga, che risuonarono come puro esercizio estetico, quasi performativo, che politico. D’altra parte lo stesso Lagerfeld dichiarò di voler proporre un’idea “leggera” di femminismo, non essere «l’autista di un tir del movimento femminista».
Una tematica, quest’ultima, evocata anche da Maria Grazia Chiuri al suo esordio per Dior, nel 2016, che scatenò un acceso dibattito sull’appropriazione delle istanze legate alla parità di genere. In quell’occasione, mentre Oltreoceano Hillary Clinton correva per la Casa Bianca, la designer portava sulla passerella parigina delle t-shirt bianche con la scritta nera “We should all be feminists”, citando l’omonimo saggio di Chimamanda Ngozi Adichie. Peccato che gli intenti, per quanto nobili — il brand dichiarò che parte dei proventi sarebbe stata destinata alla The Clara Lionel Foundation, organizzazione no-profit fondata da Rihanna —, si perdessero nel contrasto con il prezzo di vendita: 750 euro. Un cortocircuito che sollevò inevitabili dubbi sull’autenticità dell’iniziativa.
Del resto, da gesto “militante” a oggetto di marketing il passo è breve. E allora, può davvero una frase stampata su cotone reggere il peso di una battaglia politica o sociale, quando tutto ciò che le ruota attorno resta patinato e svuotato di senso? Gli interrogativi si moltiplicano alla luce delle ultime sfilate. Lo stesso Appiolaza ha argomentato alla stampa la sua scelta con queste parole: «L’ethos di Moschino nasce dalla gioia, quindi non volevo perdere questo sentimento. Ma volevo anche essere cosciente dei tempi in cui viviamo». Una dichiarazione che, pur nella sua sincerità, resta sospesa su quella tensione sottile tra l’effimero della moda e la responsabilità dell’impegno.
E quando queste due dimensioni provano a congiungersi, ecco che ci si scontra con un’altra domanda scomoda: come può la moda dichiararsi “resistente” quando è spesso legata a doppio filo alle strutture di potere? Basti pensare alla presenza del magnate Bernard Arnault, fondatore e ceo del gruppo Lvmh, all’Inauguration Day di Donald Trump, così come ai look firmati (coincidenza?) da Givenchy e Dior (maison del gruppo) di Ivanka e Melania Trump. Il cortocircuito si fa sempre più evidente: non si può usare la passerella per veicolare messaggi progressisti se poi, dietro le quinte, il potere economico che li finanzia supporta sistemi che remano nella direzione opposta.
Il rischio è quello di cedere a un attivismo prêt-à-porter, con messaggi facili da indossare ma ben più difficili da incarnare. Pose, più che autentiche prese di posizione. Le eccezioni, naturalmente, esistono. Willy Chavarria, ad esempio, ha sempre intrecciato moda e impegno sociale, raccontando attraverso le sue collezioni e i suoi show storie che trattano di sessualità, etnia e inclusione. La sua felpa, che inneggia all’amore libero, è stata messa in vendita a circa 188 euro: non certo un prezzo low cost, ma ben lontano dai listini altisonanti di altre slogan tee approdate in passerella negli ultimi tempi.
La moda ama spesso raccontarsi come sistema culturale attento all’inclusività e sensibile alle tematiche legate alla parità di genere, ma spesso opera in perfetta sintonia con le strutture che vorrebbe criticare. Quando l’atto di ribellione è incorporato in un prodotto, venduto a caro prezzo e rilanciato sui social — magari tramite qualche influencer che lo sfoggia senza realmente comprenderne il senso — di quel gesto non rimane altro che la cornice, priva di contenuto. La slogan tee può essere un efficace supporto narrativo, ma resta solo un altro accessorio se il sistema che la produce non abbraccia fino in fondo il cambiamento che proclama.