di Manuel Orazi (ilfoglio.it, 19 aprile 2023)
Il centenario della Marcia su Roma, Fratelli d’Italia con la fiamma nel simbolo, la trilogia M di Antonio Scurati, Dante pensatore di destra secondo il ministro Sangiuliano, il pestaggio al Liceo Michelangiolo di Firenze, Ignazio La Russa su Via Rasella, la cancel culture anglosassone hanno riacceso la discussione sull’eredità dei regimi coloniali degli ultimi due secoli fino a mettere in discussione non tanto le statue di schiavisti, monarchi e intellettuali (come il montanelloide dei giardini di Porta Venezia) ma persino quella dedicata a Gandhi – razzista!
Ogni statua è fatta per essere abbattuta, a gennaio ad Odessa hanno rimosso quella della zarina Caterina II che era tornata al suo posto nel 2007, novant’anni dopo cioè che i sovietici l’avevano sostituita a suo tempo in seguito alla Rivoluzione d’Ottobre. È pur vero tuttavia che l’Europa nutre in sé la più forte avversione verso la tabula rasa, un tabù che hanno in misura molto minore America e Asia, dove tutto viene rifatto continuamente a cuor leggero e infatti non hanno mica le Soprintendenze.
In questo clima generale alcuni storici italiani delle nuove generazioni hanno deciso di battere un terreno che i loro predecessori, i vari Renzo De Felice, Emilio Gentile, Mario Isnenghi, avevano eluso: l’architettura e l’urbanistica. Forse solo Vittorio Vidotto, nella sua guida Roma contemporanea (Laterza), se n’è occupato direttamente, notando questioni storiche rimarchevoli. In un’intervista Vidotto afferma: «Se si volesse demolire l’obelisco allora bisognerebbe demolire anche le statue dello Stadio dei marmi, del tennis, i mosaici della piscina, non si finirebbe più perché in ogni città d’Italia il fascismo ha lasciato segni profondi, ovunque».
A questo sono dedicati due stimolanti volumi: I luoghi del fascismo. Memoria, politica, rimozione, a cura da Giulia Albanese e Laura Ceci, e Architetture di Storia. Fascismo, storicità, cultura architettonica italiana, di Giorgio Lucaroni, entrambi pubblicati da Viella. Se il primo raccoglie un gran numero di contributi anche su casi di studio stranieri per un’analisi comparata sui diversi trattamenti della memoria storica fascista in Germania, Spagna e Portogallo, il secondo libro cerca di riassumere la questione senza entrare mai nel merito della critica dei singoli edifici, riassumendo piuttosto le fasi salienti del dibattito dell’epoca e le diverse posizioni in campo.
Largo peso in tutto questo ha avuto l’articolo sul New Yorker di Ruth Ben-Ghiat nel 2017, Perché ci sono ancora così tanti monumenti fascisti ancora in piedi in Italia?, nonché le dichiarazioni dell’allora presidente della Camera Laura Boldrini sulla scritta del Duce da cancellare sull’obelisco al Foro Italico. La preoccupazione di una parte degli storici internazionali è che i gruppi neofascisti possano reimpossessarsi dei simboli del regime traendone nuova linfa e, di conseguenza, che quelle politiche riemergano. Tuttavia la storia non si cancella, anche se certo si può rimuoverla con le demolizioni o grattando le scritte come i giacobini o i talebani; ma soprattutto, come disse Furio Jesi all’Espresso poco prima di morire, «nei secoli scorsi la cultura custodita e insegnata è stata soprattutto la cultura di chi era più potente e più ricco, o più esattamente non è stata, se non in minima parte, la cultura di chi era più debole e più povero. È inutile e irragionevole scandalizzarsi della presenza di questi residui, ma è anche necessario cercare di sapere da dove provengano».
Albanese e Ceci notano come molti simboli fascisti siano vissuti con indifferenza dagli abitanti, ma è chiaro grazie a Walter Benjamin come in particolare «l’architettura ha sempre fornito il prototipo di un’opera d’arte la cui ricezione avviene nella distrazione». Dopotutto, quali sono le architetture per cui i cittadini si esaltano? Forse le cattedrali, anche se sono migliaia le chiese italiane abbandonate, vedi Tomaso Montanari, Chiese chiuse (Einaudi, 2021); di certo non per gli stadi di calcio visto che a Milano la maggioranza accetta di buon grado che venga demolito il San Siro, figuriamoci quale culto gli italiani riservano agli uffici postali o alle ex Gil del Ventennio che oggi sono sedi degli enti locali. Piuttosto bisognerà distinguere fra il “valore di vetustà” di Alois Riegl, cioè il vintage (e infatti il vincolo è automatico per ogni edificio che superi i settant’anni), dai capolavori studiati da grandi studiosi, quasi tutti di sinistra.
Né Furio Jesi né Gianni Vattimo, Bruno Zevi, Massimo Cacciari, Ernesto Ferrero, Alberto Asor Rosa, Giorgio Ciucci, Peter Eisenman, Elena Pontiggia, Emily Braun hanno avuto problemi di sorta a rileggere criticamente, apprezzandoli, i capolavori artistici nati da esponenti della cultura di destra del primo Novecento come Martin Heidegger, Ernst Jünger, Louis Ferdinand Céline, Luigi Pirandello, Giuseppe Terragni o Mario Sironi. Ogni opera è un’opera collettiva e, proprio per questo, vive separatamente dal proprio autore e dalle sue idee personali, massimamente l’architettura che è condizionata anzitutto da questioni funzionali e ha una vita lunghissima fatta di cambi di destinazione d’uso continue. Da decenni i musei e le istituzioni culturali italiane non hanno mai smesso di mettere in mostra l’arte e l’architettura del Ventennio, da Il razionalismo e l’architettura in Italia durante il fascismo, a cura di Silvia Danesi e Luciano Patetta, alla Biennale di Venezia del 1976 diretta da Vittorio Gregotti in poi.
Nel libro di Lucaroni il paragrafo chiave è Disordine controllato, relativo alla natura della cultura fascista, che ancora molti profani considerano unitaria se non addirittura uno stile, il che è chiaramente impossibile: come si possono accomunare Armando Brasini con Adalberto Libera, Lucio Fontana con Ottone Rosai, Filippo Tommaso Marinetti con Massimo Bontempelli, Arturo Martini con Fausto Melotti, Pietro Mascagni con Alfredo Casella, Margherita Sarfatti con Leo Longanesi? L’opportunismo del regime lasciava ambiguamente la porta aperta a tutti gli artisti iscritti al Pnf, anche ai più mediocri, motivo per cui si riunivano per gruppi contrapposti cercando di accreditare la propria linea futurista, novecentista, astrattista, razionalista ecc. come quella ufficiale dal regime, senza mai riuscirci. Dopo la dichiarazione dell’Impero del 1936, però, il clima cambia e si fa meno babelico: Francesco Parisi, curatore della splendida mostra Il déco in Italia. L’eleganza della modernità (al Forte di Bard fino al 10 aprile, catalogo Silvana), nota come «la complessa mediazione che la politica del fascismo iniziava a esercitare nei confronti degli artisti biasimando, tra le varie tendenze, “gli estetismi europeizzanti” lasciava quindi poco spazio a una pittura concepita piuttosto come disimpegnata e aliena dalla vita politica e pratica».
Alla fine degli anni Trenta, in architettura il disordine diminuisce, per così dire, perché gli archi e le colonne tanto invocati da Ugo Ojetti sul Corriere della Sera vengono premiati sempre di più nei concorsi pubblici, anche se l’Italia non fa certo eccezione: in Urss Stalin fa costruire condomini operai ornati con grandi capitelli corinzi, negli Usa Roosevelt promuove architetture neopalladiane, nel Regno Unito fiorisce l’opera neoclassicista di Edwin Lutyens, mentre nella Germania nazista da cui erano scappati tutti i professori della Bauhaus, Albert Speer concepiva progetti dalle forme greco-romane con dimensioni sempre più megalomani. L’eccezione era stata rappresentata dai pochi razionalisti italiani raccolti intorno a Giuseppe Pagano e Giuseppe Terragni e alle riviste Casabella e Quadrante che avevano creduto nel fascismo come movimento rivoluzionario, creatore di un nuovo secolo, ergo di un nuovo stile privo del “morbillo della romanità”.
Carlo Belli, caustico polemista, se la prendeva allora con Marcello Piacentini, Cesare Bazzani, Piero Portaluppi, Gio Ponti, Giovanni Muzio, giudicandoli poco fascisti: «non sono che continuatori dell’arte umbertina, illusi di esprimere una certa modernità per avere un po’ decrostizzato le loro facciate». Sempre Belli, ma molti anni dopo, in Il volto del secolo. La prima cellula dell’architettura razionalista (Giometti & Antonello, 2022), scriverà invece che «tutti, poi, credevamo ancora nel Fascismo – nel nostro Fascismo: quello che doveva risultare più tardi così diverso da quello vero, da poter esser definito, tranquillamente, antifascismo!». Il “vero” fascismo era insomma a suo dire quello piacentininano dell’E42, ma si sbagliava: al contrario del nazismo, che aveva un manifesto preciso in Mein Kampf, il fascismo è stato così contraddittorio da divenire “eterno” secondo la celebre analisi di Umberto Eco, e perciò molteplice, neofascismo incluso.
Forse però la migliore definizione della cultura fascista è stata quella che diede in tarda età Indro Montanelli, che come Eco si basava sui propri ricordi giovanili. In una risposta a una lettera del 1997, scrive: «che sia esistita una cultura identificabile come “fascista” non mi sembra. Sicché la definizione più saggia che sul fascismo ho sentito è quella che colsi, pochi mesi prima che morisse, sulla bocca di Pirandello: “Un tubo vuoto, che ognuno può riempire di quello che più gli aggrada”. La cultura, Mussolini la “sentiva” poco, anche perché poca ne aveva lui stesso. Poca, vecchiotta e quasi tutta di marca francese. Basta vedere come redasse o fece redigere sulla Treccani la voce Fascismo lasciandola aperta a tutte le interpretazioni, e quante volte lui stesso si contraddisse… Di una cultura fascista, francamente, io che ci ho vissuto dentro, non mi sono mai accorto. Quella esistente, Mussolini la trattò come aveva trattato tutto il resto: le impose la camicia nera, ma si contentò della camicia». Un semplice esempio di storicizzazione architettonica senza demolizione o rimozione, è quella di Villa Mussolini a Riccione, stretta fra il Lungomare Libertà e Via delle Vittime del fascismo: l’odonomastica è l’arma più forte.