di Marzia Papagna (huffingtonpost.it, 21 novembre 2020)
La pubblicità ai tempi del Covid-19. Campagne anti-pandemiche che dividono le opinioni del Web tra chi le considera semplicemente geniali e chi, invece, mette in discussione le scelte fatte in un momento così delicato. Tra i più recenti, l’invito a restare a casa da parte del ministero della Salute francese, che mostra un epilogo abbastanza drammatico, e lo spot del governo tedesco, che punta sulla pigrizia dei più giovani per vincere la crisi. Senza andare troppo lontano, nella primissima fase del lockdown, sugli schermi tv delle case italiane, durante l’abituale piccolo spazio pubblicità, sventolavano bandiere tricolore con l’indimenticabile colonna sonora degli applausi dai balconi e il messaggio che ha fatto il giro del mondo: resta a casa, insieme ce la faremo.Per capire a fondo il ruolo della pubblicità in una fase così particolare e provare a riflettere sul ruolo che può avere per combatterla, abbiamo fatto alcune domande ad Annamaria Testa, esperta di comunicazione e creatività. Il suo ultimo libro è Il coltellino svizzero (Garzanti), che parla proprio di comunicazione, relazioni, informazione.
Come si può valutare uno spot durante la pandemia?
«Quando vogliamo valutare uno spot, e vogliamo farlo non solo in maniera emotiva, dobbiamo porci due domande: “qual è l’entità che commissiona lo spot?” e “a quale pubblico specifico è rivolto lo spot?”. In comunicazione, il senso di un messaggio cambia in relazione al contesto: chi propone quel messaggio, quali sono i destinatari, qual è la situazione. Nel caso della pandemia, dobbiamo fare da subito una grande distinzione tra messaggi che provengono dalle istituzioni e messaggi che provengono dalle imprese. Le istituzioni devono persuadere i cittadini ad attivare comportamenti virtuosi, mentre alle imprese non resta che parlare di emozioni, vicinanza, conforto. Non tollereremmo che fosse un’azienda privata a dirci come dobbiamo comportarci nell’emergenza, mentre accettiamo e addirittura ci aspettiamo che lo facciano le istituzioni».
Ma non è vero che il ruolo della creatività è anche quello di essere utile per le persone? Possiamo parlare di effetti collaterali?
«Chi diffonde sui mass media messaggi che possono modificare l’immaginario collettivo e i comportamenti ha una responsabilità. Dunque, anche chi fa pubblicità dovrebbe sempre porsi l’imperativo di non fare danni, e non solo in tempo di pandemia. Sul Covid non parlerei di effetti collaterali. Gran parte degli spot delle imprese sono come una borsa dell’acqua calda: confortanti, inoffensivi e un po’ tutti uguali, non solo in Italia. C’è un video americano su YouTube, intitolato Every Covid-19 commercial is exactly the same, che mostra come le retoriche siano identiche, con parole d’ordine ricorrenti: casa, gente, famiglia, incertezza, sicurezza, aiuto, siamo qui per voi. Tra l’altro, non possiamo dimenticare che, almeno agli inizi dell’ondata pandemica, mandare in giro troupe a fare riprese era praticamente impossibile. Molti allora se la sono cavata montando spezzoni di repertorio, che, a loro volta, sono un po’ tutti uguali. Che altro può fare un’azienda? Alcune hanno messo a punto prodotti o offerte per la pandemia, dalle confezioni alimentari da recapitare a casa a specifici presidi medico-sanitari. Insomma, hanno risposto con tempestività a nuovi bisogni espressi dal mercato. In questi casi, gli spot vantano le prestazioni dell’offerta e, quindi, riescono anche a dire qualcosa di concreto».
Il mondo sta cambiando. E quindi deve farlo anche la pubblicità?
«La pubblicità raramente inventa qualcosa di davvero inedito. Poiché di norma si rivolge a pubblici molto ampi, ai quali deve risultare gradita, è difficile che possa produrre messaggi di autentica avanguardia. Per essere efficace, però, la pubblicità dev’essere capace di cogliere tempestivamente il cambiamento, e di raccontarlo in modo seduttivo. La pubblicità è uno specchio che riflette una parte del mondo, quella che bene o male riguarda i consumi, rielaborandola, ingigantendola, addolcendola e abbellendola».
Degli spot che portano il nome della Pubblica Amministrazione, come gli ultimi appena diffusi da Francia o Germania, cosa ne pensa?
«Stiamo parlando di due spot che affrontano in modo diverso il tema del distanziamento. Il tedesco dice state chiusi in casa, il francese dice state attenti a non mandare all’ospedale la nonna, e forse esagera un po’, perché tutti quei baci e quegli abbracci non si vedevano neanche in tempi pre-pandemici. Diciamolo chiaramente: è comunque difficile che uno spot che parla di pandemia piaccia. Lo spot tedesco, che invita gli adolescenti a impigrirsi a casa “come procioni”, è stato attaccato perché in tempi di pandemia c’è chi perde il lavoro e chi muore, altro che stare sdraiati sul divano! Tuttavia, dobbiamo ragionare sull’obiettivo del messaggio e sullo specifico pubblico a cui si rivolge. Da questo punto di vista, è interessante presentare l’avere pazienza, comportamento apparentemente passivo e privo di fascino, come una scelta coraggiosa ed eroica, da veri guerrieri. E infatti, a un certo punto, lo spot dice: “la pazienza era la nostra arma”. Il mio dubbio, semmai, è un altro: non so quanto un ventenne sia disposto a immaginarsi come futuro settantenne e, quindi, a immedesimarsi fino in fondo nella narrazione dello spot».
Come si comunica, allora, durante una pandemia? E cosa?
«Durante una pandemia ciascuno dovrebbe fare la sua parte, con onestà e responsabilità, e secondo il suo ruolo. Non dobbiamo pretendere che le aziende si sostituiscano allo Stato. O che lo Stato usi gli stessi strumenti seduttivi delle aziende. E anche noi, come singoli, comunichiamo: lo facciamo con i nostri gesti, con i messaggi che lanciamo sui social network, perfino con le occhiate che ci scambiamo al di sopra della mascherina. L’Oms ha denunciato i pericoli dell’infodemia: la moltiplicazione pervasiva di disinformazione, teorie complottiste e fake news. Questo fenomeno, che è pericoloso e può essere devastante, va limitato. E tutti noi possiamo dare il nostro contributo a limitarlo, per esempio controllando bene quello che condividiamo in Rete».
Siamo tutti coinvolti…
«Sì, siamo tutti coinvolti. È però vero che chi governa ha responsabilità maggiori, anche in termini di comunicazione. E comunicano sia le parole, sia gli atti, sia le decisioni prese, sia i dati che vengono diffusi, sia le regole che vengono stabilite. Qui il grande imperativo è quello della trasparenza, della chiarezza, della coerenza. Non dimentichiamo che la comunicazione risulta credibile solo quando è chiara, coerente e trasparente».
Le chiederei a questo punto com’è la comunicazione in Italia.
«In Italia abbiamo avuto mille fonti: hanno comunicato gli esperti, hanno comunicato i giornalisti con articoli, opinioni, reportage e talk show, hanno comunicato le autorità locali e quelle centrali. E tutti si sono scatenati sui social network. Alcuni hanno comunicato mediamente bene e in modo pacato, altri in modo poco chiaro o ansiogeno, o contraddittorio, o strumentale. E questo ha creato un senso di oppressione e di fastidio. L’eccesso di comunicazione proveniente da troppe fonti, spesso in contraddizione o in aperta polemica, genera insofferenza, stanchezza, ansia, perdita di credibilità, e quindi di fiducia».
E allora di cosa c’è bisogno? Cosa servirebbe?
«Il dato di fatto è questo: stiamo soffrendo così dolorosamente la seconda ondata della pandemia anche a causa dell’eccesso della comunicazione e della cacofonia di voci, unita all’assenza di valutazioni, indicazioni e orizzonti chiari. Certo: non ci sono soluzioni semplici per problemi complessi, ma un buon punto di partenza potrebbe essere quello di trarre ispirazione e insegnamento da chi è riuscito a parlare della pandemia in modo pacato, consistente, rassicurante, empatico e convincente. Le faccio due nomi: la cancelliera Angela Merkel e il presidente Sergio Mattarella».