di Giuseppe Mazza («Il Venerdì di Repubblica», 4 maggio 2018)
Eppure è Marx. Il nemico giurato del capitale, il rivoluzionario perseguitato dai governi di mezza Europa, il filosofo che voleva abolire la proprietà privata. Allora come si spiega che proprio quest’uomo piaccia così tanto alla pubblicità? Possibile che non faccia paura?In occasione del duecentesimo compleanno (era nato a Treviri il 5 maggio del 1818), scopriamo infatti che non solo la sua presenza nel mondo della réclame è stata costante, ma nei nostri anni è addirittura aumentata.
Certo, all’inizio fu tanta politica. Nel 1914, per esempio, i socialisti italiani non ebbero dubbi su come pubblicizzare dei copertoni: «Pneumatici Carlo Marx, la gran marca rossa. Invincibile, garantita». Il fondatore della Prima Internazionale era diventato già allora un simbolo globale, il testimonial ideale di ogni forma di socialismo. Bici comprese.
Dalla propaganda, comunque, Marx sarebbe uscito in ottima forma. Mentre l’anticomunismo occidentale si concentrava su Stalin e Lenin, il suo faccione svernava serafico su statue e francobolli, avvolto in uno status diverso, più distaccato. Per i pubblicitari americani, sempre alla ricerca di roba forte, un personaggio irresistibile.
Come nel 1962, quando l’azienda di autonoleggio Avis si presentò come il numero due del mercato citando il Manifesto di Marx. La sua dottrina però non era il comunismo ma il “numeroduismo”, ossia il credo di tutti quelli che per cavarsela devono impegnarsi allo spasimo. Alla fine c’era anche un bel «Numeri due di tutto il mondo, unitevi!», un vero omaggio all’autore. Ma sul talento sloganistico di Marx non ci sono dubbi. Di recente una campagna del servizio sanitario inglese diceva «da ognuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni». La fonte non era citata, ma per il copyright rivolgersi a lui.
Uno così, la svolta pop la regge senza fare una piega. Eccolo, nel 1967, fare capolino come niente fosse sulla cover di Sgt. Pepper dei Beatles, là in seconda fila, tra Oliver Hardy e H.G. Wells. Si capiva già il segreto della sua icona in bianco e nero, ciò che gli ha consentito di attraversare i momenti di comunicazione più diversi: ovunque si trovi, la sua è l’espressione di chi sta continuando a pensare. Una sorta di motore silenzioso della Storia.
Due anni dopo, altro esempio, le cartiere Olin lo mostrarono in una campagna che diceva: «Se Africa, Asia e Sud America diventano comunisti, non prendetevela con lui». La tesi era semplice: è ovvio che così tanti sudamericani siano tentati dalle idee marxiste, visto che lavorano per una paga da fame. Se però altri come noi pagassero il giusto, magari anche investendo sui territori nei quali impiantano le fabbriche, “lui” sarebbe fuori gioco. E Marx, intanto, assisteva impassibile a tanto darsi da fare.
Non è un caso se la nuova sinistra degli anni Settanta ebbe un feeling speciale proprio con lui. Lo ritroviamo con la chitarra in mano sul manifesto di una rassegna di cantautori, oppure in versione autostoppista su un poster dei giovani comunisti francesi. Come dire: uno di noi. Una curiosa campagna Piaggio degli anni Ottanta lo propose persino come un rito di passaggio adolescenziale. “Gennaio, Febbraio, Marx, Aprile… i ragazzi diventano uomini e Vespa cresce con loro”.
D’altra parte, se Slavoj Žižek lo definisce il poeta delle merci, perché le merci non dovrebbero fare poesia su di lui? Levi’s per esempio gli dedicò un viraggio a colori del classico ritratto, associando due eventi storici del 1883: i primi jeans color indaco e la morte di Marx. Lo stesso trattamento visivo fu ripreso da Omnitel alla fine degli anni Novanta: «La parola a chi lavora», diceva il titolo della campagna, mostrando il filosofo con telefonino in pugno e barba colore del marchio.
Campagna un po’ brutale, nata nell’epoca blairista della cosiddetta Terza Via, quella della sinistra liberista. Ci fu chi la vide come un segno storico: Alfonso Berardinelli su Liberal scrisse di un Marx ormai «lupo senza denti nello zoo della pubblicità». Insomma il marxismo, archiviato anche dalla sinistra, sembrava finire i suoi giorni proprio tra le grinfie della réclame, linguaggio spregiudicato di quell’«immane raccolta di merci» descritta dal filosofo nel Capitale.
Però, sorpresa, Marx in pubblicità da allora c’è stato sempre di più. Dal quotidiano svizzero all’acqua minerale finlandese, dalla Dacia Station Wagon alla carta di credito della banca di Chemnitz, la città che in era socialista si chiamava KarlMarxStadt. La sua icona non è più andata via.
Attenzione, il fatto che il volto di Marx sia diventato merce non autorizza nessuna lettura automatica. Del resto era stato lui stesso a metterci in guardia, quando scrisse che sì, a prima vista la merce «sembra una cosa banale, ovvia» ma se cominci ad analizzarla scopri che è «imbrogliatissima, piena di sottigliezza e di capricci teologici». Chissà che proprio le merci non ci stiano suggerendo che la Storia non è finita.