di Guia Soncini (linkiesta.it, 28 luglio 2023)
Chissà se, prima della rivoluzione, qualche popolano francese si era illuso che Maria Antonietta fosse la sua migliore amica. Magari quella aveva sorriso dal finestrino della carrozza, ovvero aveva fatto il proprio lavoro passando in mezzo ai sudditi, e lui aveva equivocato. Secondo me no. Secondo me duecentocinquant’anni fa erano più svegli di ora, che ci percepiamo furbissimi mentre brilliamo per stolidità.
Non erano, nei secoli precedenti, stati traviati dall’abuso del termine «amico». «Siamo amici di Facebook», dicevamo con coloritura sprezzante quindici anni fa, intendendo: ma chi cazzo lo conosce. Intendendo: in quel luogo del computer che siamo troppo adulti per prendere sul serio, la definizione è «amico», ma l’ho visto forse due volte e certo non posso chiamarlo se alle tre di notte buco una gomma.
C’è una storia che ha raccontato Bruce Springsteen ospite di Graham Norton, il miglior intervistatore di gente famosa al mondo. È il 1980, Springsteen ha la serata libera tra due concerti a St Louis, va al cinema a vedere Stardust Memories. Di fronte al disprezzo di Woody Allen per l’invadenza del pubblico verso la gente famosa, un ragazzino seduto nella sua stessa platea chiede a Springsteen se condivida. Quello dice di no, perché che altro puoi dire, o forse perché davvero a lui i fan piacciono, o forse perché è il 1980 e non ci sono ancora i telefoni con la telecamera e l’invadenza è un concetto embrionale. Fatto sta che a fine film il ragazzino gli chiede se gli vada di andare a casa sua a conoscere i suoi genitori, lui dice di sì, mangia le uova col ragazzino e la mamma, e da allora ogni volta che va a suonare a St Louis si vedono.
Significa che c’è gente che guardiamo alla tv o su un palco o dentro al telefono che è, se non già nostra amica, a un solo «vuoi venire a conoscere mia mamma?» di distanza dal diventarlo? Ecco, no. È un episodio eccezionale, altrimenti non varrebbe la pena raccontarlo in tv. Un episodio eccezionale di anni lontanissimi e diversissimi. La settimana scorsa Loredana Lipperini ha scritto un post invitando alla calma sulla morte di Andrea Purgatori: la perentorietà con cui il pubblico ritiene d’avere diritto di conoscere le altrui cartelle cliniche è inquietante nonché orrenda. Nei commenti, qualcuno scriveva qualcosa tipo: io gli volevo bene e ho diritto di sapere. A leggere distrattamente lo si sarebbe preso per un amico, ma no: era qualcuno che lo guardava in tv. Quand’è successo che la gente che guardiamo in tv ha preso ad appartenere alla categoria «volere bene»? C’entra l’aver cominciato a dire «ti amo» ai figli? Sono slittamenti semantici o frane della civiltà?
Tempo fa Cristina Fogazzi ha detto su Instagram che il capitalismo mica l’hanno inventato gli influencer, e poco dopo ha pubblicato una risposta che diceva più o meno: eh, ma se io guardo la tua vita sul telefono penso che tu sia mia amica, e se mi dici di comprare una cosa è diverso che se me lo dicesse uno spot. Non ricordo cos’avesse risposto lei, ma ricordo d’aver pensato: figlia mia, se tu pensi che una di cui guardi i filmini su Instagram sia tua amica hai problemi molto più gravi dei consigli per gli acquisti. L’altro giorno Loredana Lipperini (sempre lei) ha scritto un articolo su Michela Murgia. Che l’ha ripubblicato sulla sua pagina Instagram ringraziando Lipperini per averla capita, Massimo Giannini per aver pubblicato il pezzo, e insomma tutti i normali convenevoli di questi casi. Sotto al post, c’era un commento che mi sono salvata nella cartellina di spirito del tempo. Diceva così: «Mi piacerebbe un ringraziamento anche alle persone normali che non stanno qui a fare tappezzeria, che acquistano libri e che sostengono a gratis».
Michela Murgia ha cinquecentosedicimila follower su Instagram. In cinquecentosedicimila si sentono esclusi quando cita gente che conosce davvero o con cui lavora o di cui è amica? In cinquecentosedicimila ritengono che lei debba loro qualcosa perché comprano i suoi libri o le mettono i cuoricini alle foto del cappuccino? Certo che sì. E infatti, quando Chiara Ferragni osa non contrirsi subito e moltissimo per gli incendi in Sicilia, ecco una parte dei suoi follower pronta a dire vergogna, allora non sei davvero la paladina delle buone cause, allora non ci meriti, allora ci pentiamo d’aver sancito il tuo successo, allora tagliatele la testa. Ovviamente i giornali riprendono il tutto come «gaffe» (un tic lessicale da morte cerebrale), perché elaborare un concetto, quando si riprende ciò che accade sui social, non pare alla loro portata. È Chiara Ferragni che ha fatto una figuraccia osando essere in vacanza al mare a luglio, mica il pubblico che ha bisogno di aiuto psichiatrico se davvero crede che Chiara Ferragni gli debba qualcosa (chissà poi cosa: contrizione apparente, solidarietà ostentata, schermate nere?).
Ovviamente non è che Chiara Ferragni sia estranea al meccanismo, che alimenta a ogni condivisione di articoletto semplicistico contro il sessismo e a ogni schermata nera per Black Lives Matter o altri lutti instagrammatici. D’altra parte al meccanismo non sanno opporsi gli intellettuali, mi parrebbe assurdo aspettarsi che lo facesse una la cui forza personale non è esattamente la dialettica. Ci aspettiamo che Chiara Ferragni vada, a mani nude, a spegnere gli incendi in Sicilia. Ci aspettiamo di poter chiedere un prestito, un favore, un consiglio sulle nostre vite a qualcuno che guardiamo in tv. Ci aspettiamo che le persone alle quali mettiamo cuoricini dopo averne sbirciato pezzettini di arredo vitale sui social ci siano grate, si accorgano di noi, soppesino ogni cuoricino e ricambino i nostri sentimenti come fossero l’ufficiale di cui era innamorata Adèle Hugo. Ci aspettiamo il bonus psicologo, ma che si sbrighi.