di Flavia Perina (linkiesta.it, 5 agosto 2019)
C’è un mondo oltre Matteo Salvini, come ce n’era uno oltre Matteo Renzi, e persino oltre Silvio Berlusconi, e tuttavia la politica italiana dall’epoca del primo predellino alla nuovissima stagione del Papeete sembra ferma al giudizio sulle leadership, alla critica delle leadership, all’ossessione per le leadership, al punto da immaginare una sindrome di Stoccolma vera e propria.Ci sentiamo prigionieri ma ci siamo affezionati ai nostri carcerieri fino al punto di non riuscire a parlar d’altro. La notiziabilità delle imprese delle ultime leadership italiane è, mediamente, piuttosto bassa. Battute contro gli avversari, Ciaone, Zingaraccia, Chi non salta comunista è. Inopinate location dove mostrarsi in accappatoio bianco, tuta da sci, costume: mica Martha’s Vineyard o Camp David, al massimo il villone col vulcano finto o il dj-set sulla costiera adriatica. Hastag da liceali, con sciupio di maiuscole e punti esclamativi: Bastaaaa, ALavorare, Ruspa, Gufi, MaDoveVivete? SenzaPaura! Il colonnino delle brevi sembrerebbe già troppo, e invece no: sono notizie, anzi notizione, spesso aprono le edizioni online anche dei quotidiani più titolati. Così come le copertine dei femminili e dei settimanali di gossip sono intasate dalle immagini delle nuove famiglie reali e le occasionali accompagnatrici dei nostri o le loro mogli di modesta biografia sono tutte Lady Diana, Meghan, Camilla, Caroline di Monaco.
«Bisognerebbe staccare la spina», dicono i più ingenui, senza essere consapevoli che manco all’epoca delle Br, per pressanti motivi di sicurezza nazionale, ci si riuscì fino in fondo (e ringraziamo il cielo che i social ancora non ci fossero, se no i comunicati contro il Sim avrebbero viaggiato più dei post sul Trono di Spade). Figuriamoci ora che il gioco della leadership è diventato passatempo nazionale, un Processo del Lunedì non-stop dove al posto del moviolone sul gol di Turone o equivalenti c’è il ralenti del ministro che balla con la lingua di fuori o il fermo immagine della borsa della ministra, e il retroscena sui convocati o gli sconvocati si fa parlando di flat tax e salario minimo.
La tendenza al moralismo indignato della sinistra e la propensione della destra all’épater le bourgeois si sposano perfettamente nel costruire la commedia delle leadership. E possono pure invertire i loro ruoli, tanto in Italia nessuno si ricorda mai niente: la destra che strilla contro Carola senza reggiseno è la stessa che manifestava con le t-shirt “Siamo tutte puttane”, la sinistra che inorridisce per le cubiste che sculettano cantando l’Inno di Mameli è la stessa che per mezzo secolo ha preferito dire Paese perché Patria suonava nazionalista e guerrafondaio. L’importante non è il “Cosa fa, cosa dice” ma il “Chi fa, chi dice”: moralisti e libertari, manettari e garantisti, laici e cattolici si scambiano i vestiti ogni giorno per difendere o attaccare la leadership del momento.
Così, se decretare il black-out non si può, è irrealistico, pura utopia, almeno si potrebbe acquisire la consapevolezza che è solo un passatempo, che stiamo partecipando a un social game collettivo che ha a che fare con la politica quanto Fortnite ha a che fare con il nostro possibile futuro. Le leadership sono diventate il nostro gioco di ruolo (“Quello è salviniano”, “Quello è renziano”), una simulazione collettiva di impegno civico a basso costo e a basso sforzo. Forse per questo il Paese continua a incoronare leader così divisivi ed esagerati: con gente più normale non ci sarebbe divertimento.