di Gilda Ciao (linkiesta.it, 3 settembre 2019)
Che il ruolo della donna fosse al centro di questa Mostra del Cinema di Venezia lo aveva preannunciato Alberto Barbera, dal 2012 di nuovo alla direzione del festival. E in effetti, a quasi due anni dallo scandalo Weinstein e dal Me too, seguito dalla vicenda Asia Argento – Jimmy Bennet, è questo il tema portante della Mostra. Dove, però, un certo neo femminismo inciampa su sé stesso e sulla buccia di banana più scivolosa: la retorica dell’ideologia.
Neanche a dirlo, appena svelati i film in concorso fioccano le critiche per la scarsa rappresentanza di registe donne: 2 su 21. A rincarare la dose ci pensa Lucrecia Martel, presidente di Giuria, che appena sbarcata al Lido arriva in conferenza stampa a dibattere con Barbera di eventuali quote rosa e dichiara: «Non ci sarò alla cena di gala di Polanski per non dovermi alzare ed applaudire». Solo che J’Accuse, film sull’“affaire Dreyfus” firmato dal regista che dal 1977 ad oggi è sotto minaccia di estradizione da parte degli Stati Uniti per la violenza sessuale su una minorenne, è un esempio di grande cinema e per alcuni critici da Leone d’Oro. In sala stampa gli attori protagonisti – Jean Dujardin, Louis Garrel, Emmanuelle Seigner – sono accolti da lunghi applausi in piedi, Polanski è il grande assente; il produttore Alain Goldman con i coproduttori Luca Barbareschi e Paolo del Brocco liquidano ogni tentazione polemica perché «non siamo in tribunale ma in un festival internazionale che celebra l’arte».
Per dirla alla francese, touché: tanto più che la Biennale Cinema 2019 adempie a tutti gli effetti alla capacità dell’arte di essere specchio dei fenomeni profondi dei propri tempi, anche demistificando le credenze in atto. Infatti, le opere di donne sono ben presenti nel complesso nelle varie categorie, e donne sono 4 presidenti di giuria su 5: da Laurie Anderson, performer iconica della sperimentazione musicale e visiva, per Venice Virtual Reality, alle registe italiane Susanna Nicchiarelli per Orizzonti e Costanza Quartiglio per Venezia Classici. La “quota azzurra” tra i giurati è Emir Kusturica, per Venezia Opera Prima Lugi De Laurentiis.
Ma soprattutto, basta guardare le storie e le protagoniste dei film. A partire da La Vérité che apre la 76a edizione della Mostra: nell’opera in concorso del giapponese Kore-eda Hirokazu (regista Palma d’oro a Cannes 2018), gli uomini sono personaggi di contorno, compagni consapevoli di non avere la stoffa per una posizione di primo piano, accanto a donne capaci di rielaborare vissuti emotivi tenendo le redini del proprio ruolo sociale. Così, mentre madre – Catherine Deneuve – figlia – Juliette Binoche – e nipote – la giovanissima Clémentine Grenier – risolvono conflitti e non detti generazionali, il merito dei personaggi maschili (Ethan Hawke, Roger van Hool) è reggere il gioco, amare il proprio ruolo di spalla, laddove lo sguardo femminile rivela che la quotidianità è priva di importanza: la memoria è ingannevole, la verità unica non esiste, l’aspirazione alla poesia costa, ma ne vale la pena.
«Perception is real, truth is not»: lo dice lapidaria Imelda Marcos in una delle interviste che compongono il film fuori concorso The Kingmaker. Seguendo l’ex first lady delle Filippine nella sua nuova ascesa politica attraverso la candidatura a vicepresidente del figlio Bongbong Marcos e il sostegno a Rodrigo Duterte, in vista delle presidenziali del 2022, Lauren Greenfield ci mostra senza mezzi termini quanto il seduttivo carisma femminile sia ben più pernicioso dell’iconografia dell’uomo forte: a 85 anni, Imelda è un animale politico inarrivabile per fascino, intuito, istinto, sorretto da una narrativa autobiografica di madre ecumenica di tutti i filippini. E a rivelarlo è una documentarista di spicco, Emmy Award 2015 per lo spot #likeagirl, con il claim «When did doing somethin “like a girl” become an insult?».
Ecco, la sensazione è che la gender equality stia prendendo una strada sterile: da mettersi nel ruolo di vittime che rivendicano diritti contro il predominio del maschio a cadere nella trappola dello schematismo è un attimo. Anche perché, altro che parità: e se fosse tempo di ammettere senza sensi di colpa il potere irriducibile della figa, il fascino dell’origine del mondo di Courbet che persino Lacan custodiva nel proprio studio, non come dipendenza dal desiderio del maschio ma come biologica differenza di percezione e godimento del mondo? Una differenza che nel farsi pensiero e linguaggio può essere aggressiva e dirigista, quanto aperta alla contraddittorietà dell’umano, come l’avvocato divorzista interpretato dalla splendida Laura Dern in Marriage Story di Noah Baumbach. Persino nella stanza dei bottoni della politica europea il braccio di ferro di Yanis Varoufakis contro la Troika raccontato da Costa-Gavras finisce per essere un teatrino, ed è una donna a commentarne l’infantilismo: «We need adults in this room».
Senza assumersi il potere della figa e la responsabilità di come gestirlo, la riflessione sul rapporto tra i generi si incarta, perde letteralmente corpo, e finisce che nell’epoca del sexting a fare paura è proprio la carne tremula. Meno male che ci pensa il Leone d’oro alla carriera Pedro Almodóvar a parlarci dell’immersione nelle contraddizioni del desiderio, nella vitalità notturna e sfaccettata come forma di libertà politica e individuale, senza timore di dire che «le donne sono più forti di noi uomini e per questo sono più interessanti da raccontare».