di Luca Bottura («la Repubblica», 13 ottobre 2018)
Sergio Mattarella non ha un proprio account social. Per fortuna. Ma deve averne ben compresa la nefasta influenza sulle kinderhaus che si ritrova a sovrintendere, quando, argomentando sulle sparate del Ministro della Paura contro Bankitalia, ha ricordato che il potere può dare alla testa.Non girovagando sui social, il presidente non ha potuto constatare la precisione chirurgica del suo dire nell’ultimo video Facebook di Matteo Salvini. Nel quale, oltre a promettere la chiusura anticipata dei «negozietti etnici» (quelli no, la grande distribuzione no perché apre la domenica, Amazon no perché sono stranieri: presto torneremo al baratto), ha lungamente elogiato le opere del Ventennio. Salvini trasmetteva dal tetto del Viminale. Colà ha magnificato l’Altare della Patria e le bonifiche dell’Agro, attraverso un tradizionale meccanismo passivo/aggressivo: «Ecco, ora diranno che sono fascista». E l’ha fatto non già perché intenda marciare su Roma, dove è arrivato tra i peana di quelli che chiamava terroni e colerosi, ma principalmente per avere più like. In una riproposizione virtuale del balcone — Di Maio è più naif: è salito su quello vero — in cui la ricerca del consenso sostituisce ogni altra priorità. Così, Salvini che risponde “in diretta” a Palazzo Koch — o a Tito Boeri dell’Inps, che aveva espresso valutazioni in una sede deputata — non sta facendo politica. Non solo. Più semplicemente, esporta su larga scala la dipendenza da riscontro immediato che affligge (so quel che dico) chiunque stia troppo attaccato ai social. Non è solo un suo problema. Nel mondo a Cinque Stelle è un dato costitutivo dai tempi di Casaleggio senior, che scelse Grillo ben sapendo che non cercava elettori. Voleva un pubblico. Tanto che oggi, messo ai margini della sua creatura, è costretto a raccattare qualche condivisione con siparietti comici di impatto molto relativo. Lo stesso dicasi per altri ex premier che dopo uno sprofondo elettorale (lo fece anche Obama, ma all’apice del successo) si sono dati alla tv, o hanno continuato a tenere il pallino perché anche l’impopolarità berciante è un modo per stare al centro della scena. Spesso si celia sulle origini da concorrente televisivo di Salvini. Sbagliando. L’idea di trovarsi un proscenio era evidente già dalla giovane età. E finisce col governarne le sinapsi, adeguando la rete neuronale a quella che vive di cuori e clic. Così, se il problema di Toninelli non è quello di ignorare da che parte si tengano in mano i grafici, ma la Rete che lo prende in giro, quello del vicepremier muscolare non è (non solo) creare un Paese immaginario e sovranista in cui un ordine spicciolo gli consegni una mandria poco pensante. È l’applauso di quella mandria. Che in fondo disprezza, come chiunque abbia una vocazione autoritaria. Ma della quale brama il calore. Per questo, anche per questo, condona a tizio e caio. Per questo, anche per questo, indica nemici, si costruisce un immaginario da perseguitato, coopta tecniche di derisione («Bacioni») di grana inferiore rispetto alla sua discreta cultura e non alla sua banale intelligenza. Salvini recitava da comunista (come Maroni) quando gli pareva popolare. Ora fa il fascista perché c’è il mercato. Ben sapendo che l’attuale consenso plebiscitario, virtuale com’è, mai gli riserverà il crollo cruento che investì i suoi modelli espressivi. Traduco: per fortuna, mai farà la fine del Mussolini che tanto gli piace evocare. Ma la “Guerra dei post” all’Europa è molto meno fittizia del meccanismo da bimbominkia con cui è generata. E sotto le macerie, vere, ci finiranno tutti quelli che oggi gli battono le mani un clic dopo l’altro. Perché storicamente, spesso, il potere dà alla testa non solo a chi lo esercita, ma soprattutto a chi lo subisce.