Al St. Pauli forse il calcio è davvero “del popolo”

il Post

di Gianluca Cedolin (ilpost.it, 5 dicembre 2024)

A Sankt Pauli gli adesivi sono ovunque. Sono appiccicati sui muri, sui pali, sulle porte; riempiono le pareti dei bagni e dei locali del quartiere alternativo di Amburgo, nel Nord della Germania. Molti sono marroni, bianchi e rossi, oppure arcobaleno, o ancora hanno raffigurato un teschio con sotto due tibie incrociate: sono tutti colori e simboli dell’FC St. Pauli, un club polisportivo con una lunga storia di impegno politico e sociale, la cui prima squadra maschile di calcio sta giocando in Bundesliga (il principale campionato tedesco) per la prima volta dopo tredici anni.

Le lotte per i diritti portate avanti dai suoi tifosi e da tutti gli abitanti del quartiere hanno reso questo piccolo club un’avanguardia, e ancora oggi il St. Pauli continua a proporre, con un grosso contributo dal basso, un modo d’intendere lo sport inclusivo e al passo con i tempi, del quale i risultati ottenuti sul campo sono solo una piccola parte. La squadra che gioca in Bundesliga è la più famosa e seguita, ma il St. Pauli è una polisportiva con tante sezioni maschili, femminili e miste di quasi venti sport, dal rugby al beach volley fino al softball, al biliardino e al calcio per ciechi.

Ha quasi 50mila soci, cioè persone iscritte al club che pagano una quota annuale e possono esprimere il loro voto su varie decisioni. Hanno età, estrazione sociale e origini molto variegate, ma sono in sostanza tutte persone progressiste e di sinistra. Il loro orientamento rispecchia la storia del quartiere, un luogo di lotte operaie, marinai, anarchici, punk, artisti e squatter che, soprattutto tra gli anni Ottanta e Novanta, hanno contribuito in modo decisivo a creare il mito del St. Pauli.

I soci si dividono in attivi, quelli cioè che praticano uno o vari sport, e passivi, che invece sostengono il club senza giocare. Le associazioni sportive sono diffusissime in Germania: ce ne sono circa 90mila, con 28 milioni di iscritti. Tutti i principali club di Bundesliga sono associazioni: il Bayern Monaco ha circa 360mila soci, il Borussia Dortmund oltre 200mila; i 50mila del St. Pauli sono un numero notevole, se si considera che il club rappresenta solo un quartiere di una città in cui c’è un altro grosso club, l’Hsv (Hamburger Sport-Verein, che in Italia viene chiamato semplicemente Amburgo).

Fino al 1998 le squadre di calcio tedesche erano organizzazioni non profit controllate dai soci. Da quell’anno la lega calcistica tedesca permise alle società di esternalizzare parte della gestione a una società a responsabilità limitata (quindi una società di capitali), aprendo agli investimenti da parte di privati: questo consentì ai club tedeschi di rimanere economicamente competitivi con il resto d’Europa. Fu posta però come condizione che le associazioni sportive trattenessero più del 50 per cento delle azioni con diritto di voto, garantendo ai soci (quindi ai tifosi) di mantenere la maggioranza. Di fatto i soci del St. Pauli, come quelli delle altre squadre tedesche, sono i proprietari del club, o comunque gli azionisti di maggioranza.

Secondo Massimo Finizio, che segue il St. Pauli da quasi quarant’anni, il modello delle associazioni è virtuoso perché permette a più persone possibili di provare tanti sport diversi e di socializzare, mentre in Italia le associazioni sportive sono state quasi del tutto smantellate: i pochi club di Serie A che sono ancora polisportive di fatto non lo sono, visto che hanno sezioni totalmente separate tra loro. Finizio ha sessant’anni e per il St. Pauli ha fatto di tutto: il calciatore dilettante, il dirigente (primo italiano in un club di Bundesliga), l’ambasciatore e soprattutto il tifoso. Ha creato la testata on line Tutto St. Pauli, che cura assieme a Stefano Severi, e nel 2019 ha fondato le Brigate Garibaldi, uno dei tanti fan club ufficiali del St. Pauli. Nel loro motto dichiarano l’ambizione di riunire «sotto un’unica bandiera antirazzista ed antifascista, gli amanti del calcio e di tutti gli sport».

Nel suo appartamento – dove vive con la moglie, anche lei tifosa del St. Pauli –, Finizio accoglie gli ospiti fumando un sigaro cubano con addosso una maglietta della Nazionale dell’Urss del 1988. Ci sono gagliardetti, sciarpe, biglietti e cimeli sportivi provenienti dall’Argentina, dai Balcani, dalla Germania Est: Finizio ha tifato, giocato e portato il calcio in mezzo mondo (fu premiato come sportivo dell’anno in Kosovo negli anni della guerra), ma solamente nel St. Pauli ha trovato quello che ritiene debba essere lo sport, e cioè «il migliore strumento di aggregazione sociale possibile».

Dalle finestre del soggiorno, affacciate su Neuer Kamp, si intravede Millerntor, lo stadio del St. Pauli. Qui buona parte dei tifosi, come in molti stadi tedeschi, guarda le partite da posti in piedi, non numerati e con biglietti non nominativi, che esistono in Germania e pochi altri Paesi europei. Dei 29.546 posti dello stadio del St. Pauli, 16.940 sono in piedi e solo 12.606 a sedere, e questo porta a una maggior partecipazione del pubblico: a Millerntor non ci sono bandiere e cori solamente nella Südkurve, la “Curva Sud”, quella del tifo più caldo, ma anche nella Nordkurve, la “Curva Nord”, e nella Gegengerade, che significa “tribuna opposta alla principale”.

Quest’ultima è il più grande settore di Millerntor, quello da cui guardano le partite le Brigate Garibaldi e soprattutto il primo nel quale, a metà degli anni Ottanta, arrivarono i primi tifosi punk e alternativi, molti dei quali dalle case occupate di Hafenstraße (la “ß” si legge come una doppia “s”). Hafenstraße è la via che costeggia il fiume Elba e sulla quale si sviluppava il vecchio porto di Amburgo, che oggi invece si trova dalla parte opposta del fiume ed è ancora uno dei più importanti d’Europa, il terzo dopo Rotterdam e Anversa per container transitati nella prima metà del 2024.

All’inizio degli anni Ottanta undici palazzi di Hafenstraße furono occupati da gruppi di squatter, persone cioè che occupano abusivamente edifici abbandonati come atto di protesta sociale. Le occupazioni furono sostenute da buona parte degli abitanti del quartiere e da quelle case nacquero iniziative artistiche e sociali che contribuirono alla vita culturale di Sankt Pauli, già piuttosto attiva grazie a quanto succedeva 400 metri più su di Hafenstraße, nella parallela Reeperbahn.

Sulla Reeperbahn in origine venivano fabbricate le corde per le barche del porto (Reeperbahn può essere tradotto con “Strada delle corde”), ma ai tempi delle occupazioni di Hafenstraße divenne presto Die Sündige Meile, “Il miglio del peccato”, una via con strip club, bordelli e locali di musica dal vivo; all’inizio degli anni Sessanta i Beatles, ancora semisconosciuti, si esibirono per mesi nei club di Große Freiheit, una traversa della Reeperbahn. Ancora oggi la Reeperbahn è il principale luogo della vita notturna di Sankt Pauli e di tutta Amburgo. In questo contesto, negli anni Ottanta un gruppo di punk e squatter cominciò a frequentare Millerntor, portando con sé le bandiere dei pirati – che in breve tempo divennero una sorta di simbolo non ufficiale del St. Pauli – e i loro valori antifascisti e antisistema.

Come hanno raccontato Carles Viñas e Natxo Parra nel libro St. Pauli: Another football is possible, col tempo questa parte della tifoseria si ampliò e Millerntor divenne un luogo d’incontro per attivisti e persone di sinistra, oltre che uno stadio con un clima piuttosto gradevole e tollerante, molto diverso dall’atmosfera del Volksparkstadion di Amburgo, quello dell’Hsv, dove c’erano (e ci sono tutt’oggi) vari gruppi di tifosi di estrema destra. Anche a Millerntor c’erano tifosi di estrema destra, ma furono sempre più estromessi fino a che, durante l’assemblea generale del 28 ottobre 1991, il club decise di vietare qualsiasi forma di razzismo, fascismo e discriminazione nei cori, negli striscioni, nelle bandiere e nei comportamenti delle persone allo stadio, diventando il primo club in Germania a fare una cosa del genere in modo ufficiale.

La decisione fu presa dopo che alcuni tifosi neonazisti avevano fatto dei cori discriminatori contro altri tifosi di origine turca, e fu influenzata soprattutto da una campagna mediatica portata avanti da Millerntor Roar!, una fanzine (cioè una rivista amatoriale) pubblicata da un gruppo ultras progressista del St. Pauli tra il 1989 e il 1993. Millerntor Roar! fu la prima fanzine fatta da una tifoseria tedesca (erano invece diffuse in Inghilterra) e diventò molto importante per dar voce alle rivendicazioni sociali e politiche dei tifosi.

Negli anni i tifosi del St. Pauli hanno reso la lotta alle discriminazioni e all’eccessiva commercializzazione del calcio un obiettivo importante tanto quanto i risultati sportivi, che del resto non sono mai stati particolarmente brillanti da queste parti. Hanno fatto campagne contro il razzismo e l’omofobia, si sono opposti alla volontà di alcuni individui del club di aumentare lo spazio per i posti vip, di creare un locale con la pole dance all’interno dello stadio, e hanno rifiutato la ricerca di sponsorizzazioni tra aziende con un qualche legame con il fascismo, l’omofobia o l’industria delle armi. A metà novembre scorso sono diventati la prima squadra di calcio in Europa a lasciare X (Twitter), dopo averlo definito «una macchina dell’odio».

Durante la crisi dei rifugiati siriani, furono tra i primi a organizzarsi per accoglierli ad Amburgo; venne organizzata anche un’amichevole contro il Borussia Dortmund per raccogliere fondi, alla quale andarono oltre 25mila persone e i tifosi esposero striscioni di solidarietà ai migranti: «Say it loud, say it clear: refugees are welcome here», diceva uno (Lo diciamo forte e chiaro: qui i rifugiati sono i benvenuti). Prima e durante la recente partita di Bundesliga contro l’Holstein Kiel dello scorso 29 novembre, la Südkurve ha esposto due striscioni contro la violenza sulle donne; uno dei due, in Inglese, esortava le persone a educare i propri figli piuttosto che proteggere le proprie figlie.

Anche la lotta all’antisemitismo è sempre stata una priorità, per una tifoseria come quella del St. Pauli che si oppone alle discriminazioni e agli ultras avversari di estrema destra e neonazisti. Per questo motivo la questione della guerra a Gaza è diventata delicata per tutte le tifoserie di sinistra della Germania e, in particolare, per quella del St. Pauli, dalla quale molti si aspettano una presa di posizione. Il club ufficialmente non ha preso posizione e non ha mai detto niente a favore della Palestina, così come una buona parte dei tifosi rimane convinta del sostegno a Israele. «Nel St. Pauli ci sono 40-50mila persone, ci sono opinioni diverse e c’è un dibattito nella società e tra i tifosi; forse noi come Brigate Garibaldi sulla Palestina siamo in minoranza», dice Stefano Severi.

In Europa, invece, altre tifoserie di sinistra si sono esposte (spesso contro il parere dei loro club) in favore di Gaza: i tifosi del Celtic Glasgow, storicamente gemellati con quelli del St. Pauli, hanno portato spesso le bandiere della Palestina allo stadio e hanno cantato cori pro-Palestina, e questo per la prima volta in oltre trent’anni sta causando una certa distanza con il tifo organizzato del St. Pauli. «Ci dà fastidio che dall’Italia vengano ad accusarci e ci dicano di non aver fatto abbastanza; noi stiamo cercando di fare la nostra parte, ma non è facile qui perché c’è un grosso fardello storico», dice ancora Severi, riferendosi al fatto che il passato nazista della Germania rende difficile per chiunque anche solo criticare Israele.

La questione di Gaza in ogni caso sembra un raro caso in cui il St. Pauli non sta riuscendo a far sentire la sua voce e a distinguersi, come invece avviene nella maggior parte delle questioni politiche e sociali. L’ultimo strumento economico alternativo con il quale in St. Pauli sta provando a restare competitivo e a progredire, rimanendo però autentico, è quello della cooperativa sociale. È stata istituita a inizio novembre per raccogliere capitali senza doversi rivolgere a banche o investitori privati e dovrebbe prendere in gestione dal club lo stadio, le sue attività e anche i lavori per renderlo ancora più moderno e sostenibile. In questo modo le finanze del club ne gioverebbero e, allo stesso tempo, lo stadio rimarrebbe comunque in mano ai tifosi, perché la cooperativa si sta finanziando vendendo quote ai tifosi; in meno di un mese più di 10mila persone hanno già acquistato almeno una quota (che vale 850 euro) e sono stati già raccolti quasi 20 milioni di euro. L’obiettivo iniziale, cioè quello che serve per lo stadio, sono 30 milioni di euro, ma Finizio dice che adesso «si sta già pensando di arrivare a 60».

Una buona parte delle quote associative invece, quelle uguali per tutti (poco più di 100 l’anno) e pagate da ciascuno dei 50mila soci, viene impiegata per finanziare progetti nei settori giovanili, sia sportivi sia di creazione della cultura del tifo. Il Fanladen, l’organizzazione che al St. Pauli fa da tramite tra il club e i tifosi, tra le altre cose aiuta i ragazzi e le ragazze ad avere un approccio sano e rispettoso al tifo. Julian Einfeldt e Paul Kreie, per esempio, seguono un’ottantina di under 18, li portano a Millerntor e in trasferta, gli fanno incontrare i giovani tifosi di altre squadre e cercano di educarli a essere inclusivi. Sia Einfeldt che Kreie sono dipendenti a tempo pieno del Fanladen, pagati in parte dal club e in parte dall’amministrazione cittadina di Amburgo. Kreie è anche il rappresentante dei tifosi per le persone con disabilità. Il giorno dopo la partita contro l’Holstein Kiel, i due hanno partecipato all’incontro Insieme contro le destre organizzato dalle Brigate Garibaldi in una delle stanze dello stadio assieme all’Anpi (l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) di Berlino.

Fanladen è il nome dato dal St. Pauli al suo “coordinamento tifosi”, un’istituzione che esiste in tutte le squadre tedesche e ha una grande autorevolezza nelle decisioni del club, mentre è quasi ininfluente (se non inesistente) in Italia, dove ultras e società hanno rapporti diretti e spesso controversi. I componenti del coordinamento tifosi partecipano alle riunioni organizzative che si svolgono prima della partita tra lega, club, forze dell’ordine e amministrazioni cittadine; in questo modo aiutano a prevenire problemi di ordine pubblico e, allo stesso tempo, danno risalto alle istanze degli ultras.

Un paio di settimane fa, per esempio, la partita tra Preussen Munster e Colonia è stata posticipata di 15 minuti perché, a causa di ritardi dei treni, i tifosi ospiti non erano ancora arrivati allo stadio. Non è un caso se in Germania gli stadi sono sempre pieni: nella prima parte di questa stagione la Zweite Liga, la Serie B tedesca, ha avuto un’affluenza media quasi uguale a quella della Serie A italiana (30.618 persone la prima, 30.967 la seconda). C’entrano i prezzi dei biglietti, rimasti popolari ovunque, la modernità degli stadi, ma anche un certo rispetto per la cultura e le esigenze dei tifosi. Nella scorsa stagione, quando giocava ancora in seconda divisione, il St. Pauli ha avuto una media di 29.424 spettatori su 29.546 posti; inoltre, scrivono Viñas e Parra nel loro libro, «circa il 30 per cento degli spettatori che vanno a Millerntor sono donne, una cifra record in Europa».

Lavora con i giovani anche Benjamin Liedtke, 37 anni, 15 dei quali trascorsi al St. Pauli con vari incarichi: oggi è il direttore del settore giovanile, ma nella vita fa anche l’insegnante di Tedesco e Geografia. «Qui puntiamo su un approccio partecipativo, includiamo i ragazzi nel loro processo di formazione. Parliamo tanto con loro e le loro famiglie e per questo abbiamo deciso di non lavorare con gli agenti». Nel resto del calcio europeo gli agenti, o procuratori, sono diventati molto potenti e influenti sulle scelte dei calciatori anche nei settori giovanili e indirizzano le carriere dei giocatori fin dagli anni del dilettantismo giovanile. Al St. Pauli sono invece figure centrali gli allenatori-mentori, ognuno dei quali è responsabile per un gruppetto di 6-9 calciatori. I mentori con ragazzi e ragazze «fanno molte cose anche fuori dal campo di calcio, come cucinare, giocare a badminton o andare allo stadio, con l’obiettivo di creare un ottimo rapporto giocatore-allenatore per migliorare le opportunità di apprendimento».

Liedtke dice che secondo lui un buon lavoro di un settore giovanile non può essere misurato solo in base alla classifica e ai titoli. Anche i tifosi del St. Pauli si approcciano in modo simile al tifo, sostenendo sempre la squadra e facendo il tifo anche quando non vince. Non per questo la dimensione competitiva e agonistica viene trascurata: prima della partita contro l’Holstein Kiel, importante perché contro un’avversaria vicina in classifica, tra i componenti delle Brigate Garibaldi si percepiva una certa tensione. Alla fine il St. Pauli ha vinto 3-1, ottenendo la prima vittoria della stagione a Millerntor e portandosi al quartultimo posto; quindi, al momento, fuori dalle posizioni in cui si retrocede in seconda divisione (le ultime 3). Dalla scorsa estate l’allenatore è Alexander Blessin, che un paio di anni fa aveva allenato il Genoa e ha sostituito Fabian Hürzeler, passato al Brighton, in Inghilterra, dopo aver ottenuto la promozione in Bundesliga con il St. Pauli.

A casa di Finizio il giorno della partita c’erano anche Vittorio Manta, che vive ad Amburgo, dove lavora come ingegnere per Lufthansa, e il vicedirettore di Tutto St. Pauli Severi, arrivato ad Amburgo con un treno notturno da Monaco di Baviera, dove vive e lavora nell’automotive. «La cosa bella è che qui ci sono persone di ogni tipo, c’è una manager di Airbus e gente disoccupata, ci sono giovani e meno giovani, italiani e tedeschi», racconta Manta guardandosi intorno a una cena con cui le Brigate Garibaldi, in un circolo sardo di Amburgo, hanno festeggiato in anticipo il Natale.

Il St. Pauli sembra proprio una delle cose che più si avvicinano alla tanto abusata espressione “calcio del popolo”, perché è davvero una squadra inclusiva e rappresentativa di tantissime persone diverse. Per certi versi è un po’ come il suo quartiere, che, pur essendo diventato un po’ più hipster di come doveva essere trent’anni fa, non si è ancora troppo gentrificato, o comunque lo ha fatto in un modo da sembrare ancora autentico, vissuto. Ma soprattutto a St. Pauli il calcio parte necessariamente “dal basso”, perché i tifosi sono parte attiva delle scelte del club e diverse volte, in passato, l’hanno addirittura salvato o sostenuto con collette e crowdfunding, come stanno facendo ora con la cooperativa. «Siamo un modello da cui le altre squadre, soprattutto in Italia, vorrebbero prendere ispirazione» dice Finizio, raccontando di vari incontri con dirigenti interessati a emulare il “modello St. Pauli”.

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