di Micol Sarfatti («Sette», suppl. al «Corriere della Sera», 17 maggio 2018)
«Le scarpette da ginnastica o da tennis hanno ancora un gusto un po’ di destra, ma portarle tutte sporche e un po’ slacciate è da scemi più che di sinistra». «I blue-jeans, che sono un segno di sinistra, con la giacca vanno verso destra». A metà degli anni Novanta, quand’ero quasi adolescente, Giorgio Gaber cantava, con ironia, l’abbigliamento di destra e sinistra.Oggi, anche per un artista geniale come lui, sarebbe difficile trovare la differenza. Viviamo in tempi mimetici. E la politica non fa eccezione. Certo: gli abiti, i marchi e gli accessori, ancora oggi, comunicano intenzioni e visioni del mondo. Ma i codici si sono moltiplicati, i messaggi sono spesso difficili da decifrare, il globalismo dei social rende le mode universali. E, apparentemente, superficiali. Provate a osservare un gruppo di ventenni. Difficilmente potrete intuire le loro intenzioni di voto – ammesso che votino – dal modo in cui sono vestiti. Vent’anni fa sarebbe stato chiaro. Quaranta o cinquant’anni fa addirittura lapalissiano. Alla fine degli anni Sessanta, e per tutti i Settanta, un abito era una dichiarazione politica, un accessorio era un’indicazione di appartenenza, il taglio (o il non-taglio) di capelli una presa di posizione.
Prendete l’eskimo. Chi era di sinistra lo indossava con l’orgoglio di portare una divisa. Un giaccone unisex, quasi sempre di colore verde: inconfessabili suggestioni militari mescolate ad ansie di risparmio e al desiderio di comodità. Una goffaggine voluta. «Io leggo libri, non penso ai vestiti!», sembravano dire quei cappotti informi. L’eskimo, non a caso, fa capolino tra le pagine di libri-simbolo di quegli anni, su tutti Porci con le ali di Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera. Ma c’è anche L’eskimo in redazione di Michele Brambilla, pubblicato molti anni dopo, che racconta i silenzi e la complicità ideologica di alcuni giornalisti con la sinistra, anche violenta. «L’eskimo è stato un capo identitario, e ha avuto successo perché costava poco ed era facilmente reperibile nei mercatini dell’usato», ricorda Eugenia Paulicelli, storica della moda e docente alla City University di New York. «Oggi è indossato da persone che, al di là della politica, hanno a cuore i temi della sostenibilità ambientale e della lotta agli sprechi». Non è cambiato molto, in fondo, dal 1978, l’anno in cui Francesco Guccini dedica all’eskimo una splendida canzone: «Portavo allora un eskimo innocente dettato solo dalla povertà, non era la rivolta permanente: diciamo che non c’era e tanto fa». Dieci anni fa, in un’intervista a Charta Minuta, mensile della fondazione Farefuturo, Guccini è tornato sul tema: «Il mio eskimo non aveva alcuna ideologia: era solo una giacca che costava poco». Nello stesso periodo, nei circoli intellettuali di sinistra, o aspiranti tali, spopolavano giacche e pantaloni a coste in velluto, maglioni a collo alto o di lana grezza. In qualche caso, usata come sciarpa, la kefiah, simbolo della lotta del popolo palestinese. C’è chi sostiene sia stata importata in Italia alla fine degli anni Sessanta dal leader del Movimento Studentesco milanese, Mario Capanna (ora fiero difensore del vitalizio parlamentare: i tempi cambiano).
L’elezione di Margaret Thatcher (1979) e quella di Ronald Reagan (1980) hanno segnato il decennio successivo: negli umori, nei comportamenti, nella moda. Gli anni Ottanta sono collegati a parole come “riflusso” o “edonismo”. Portabandiera di questa tendenza sono i giovani di buona famiglia, che la narrazione pubblica collocava, per comodità, a destra. A Roma si chiamavano pariolini, dal nome del quartiere Parioli; a Milano sanbabilini, da piazza San Babila, il loro punto di ritrovo. Portavano i capelli corti, indossavano occhiali Ray Ban (modello Aviator, con lenti a goccia), giacche di pelle e stivaletti a punta Barrow’s. Un’evoluzione della specie sono stati i paninari: indossavano piumini Moncler e scarpe Timberland, si trovavano intorno ai primi fast food. Inguardabili, oggi; ammirati o detestati da molti, ieri. «I marchi scelti dai giovani di destra», ricorda la professoressa Paulicelli, «erano spesso stranieri, inglesi o americani. Un modo di ostentare benessere economico e un’estetica opposta a quella dei coetanei di sinistra». «È in quel periodo che la politica ha iniziato a entrare nella moda e a contaminare le creazioni degli stilisti», sospetta Simona Segre Reinach, antropologa, docente all’Università di Bologna e autrice di vari saggi sul tema, tra cui La moda. Un’introduzione (Laterza). Prendiamo le femministe, da anni protagoniste altalenanti del panorama sociale dell’Occidente: «Portavano grandi gonne a fiori e zoccoli. Amavano gli abiti etnici. La loro era una moda globale, seguita dalle europee come dalle americane. Una forma di ribellione uguale in tutto il mondo, un modo di non identificarsi con le signore borghesi».
Nei primi anni Novanta, in Italia, cambia tutto. I partiti politici capiscono il significato simbolico degli abiti. Difficile stabilire dove sia iniziato questo passaggio, quanto abbia influito l’affermazione della televisione commerciale o l’influenza di modelli stranieri. Ma la trasformazione appare evidente. Fino a pochi anni prima un uomo di sinistra (Enrico Berlinguer), un uomo di centro (Giulio Andreotti) e un uomo di destra (Giorgio Almirante) vestivano allo stesso modo: abito scuro, camicia chiara, cravatta più o meno intonata. All’inizio degli anni Novanta, le scelte di abbigliamento delle parti politiche divergono nettamente. Gli uomini nuovi del post-comunismo – Walter Veltroni tra tutti – si presentano con tenute meno severe. Umberto Bossi adotta le camicie verdi per la Lega Nord e appare in canottiera: una forma di populismo estivo che gli garantisce attenzione, e alcune simpatie a sinistra. Silvio Berlusconi sceglie il doppiopetto: trasforma ogni occasione in una celebrazione (scegliendosi, ovviamente, il ruolo del celebrante); e nel 1994 impone ai tutti i candidati di Forza Italia la stessa divisa. Queste tendenze, in Italia, continueranno nei primi anni del Duemila. Mentre la società adotta uno stile più sportivo, la politica sembra preferire le sue nuove/vecchie divise. «Nel rapporto tra moda e politica bisogna distinguere tra look istituzionali e look militanti, più sensibili alle tendenze», spiega Simona Segre. «Dai tempi della Rivoluzione Industriale la divisa della classe dirigente occidentale è l’abito intero maschile, giacca e pantaloni, con la cravatta. È riconoscibile, resiste alle mode, è codificata in tutto il mondo. Basta guardare il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, emblema di un nuovo tipo di potere in jeans e t-shirt. Quando deve presentarsi al Senato degli Stati Uniti, sede di un potere tradizionale, per riferire sul caso Cambridge Analytica, sceglie un abito scuro tradizionale».
E in questi anni Dieci, le cose sono cambiate? In tempi di venti populisti, mentre i confini tra destra e sinistra si confondono, cosa succede? Volendo semplificare, potremmo dire: la politica cerca, con più o meno successo, di avvicinarsi alle persone. E – complici i social e la ritrovata importanza dell’immagine – vuole comunicare questa nuova disponibilità con l’abbigliamento. Da qualche anno tutti i leader di partito, fuori dalle sedi istituzionali, scelgono di mostrarsi con un abbigliamento casual. Qualche esempio? Le camicie scure di Silvio Berlusconi, e alcuni suoi improbabili lupetti neri sotto le giacche. Il giubbotto di pelle indossato da Matteo Renzi, ospite al programma Amici di Maria De Filippi: un effetto Fonzie di Happy Days, un ricordo d’infanzia per tanti di noi. Le sfacciate felpe elettorali, spesso con nomi cubitali di regioni e città, indossate da Matteo Salvini. Il piumino tecnico con cui Beppe Grillo si nascondeva dai giornalisti, sulla spiaggia di Marina di Bibbona, dopo le elezioni del 2013. Perfino l’abbigliamento iperclassico di Luigi Di Maio, teso a rassicurare gli elettori durante la recente campagna elettorale, è una novità: quello che sarebbe stato tradizionale nel 1978, e noioso nel 1998, è sorprendente nel 2018. «Oggi si sono quasi completamente persi gli stereotipi di abbigliamento legati alla militanza politica», sostiene Eugenia Paulicelli, «chi è di estrema sinistra non sfoggia più un look trasandato; gli estremisti di destra non indossano più jeans aderenti e anfibi. Molti maschi, qui e là, al centro e agli estremi, adottano spesso un look più casual, in qualche caso quasi hipster. Le donne, come sempre, hanno più fantasia». Christian Raimo – autore di Ho 16 anni e sono fascista (Piemme) – non ha torto quando ricorda che «alcuni giovani fascisti indossano le magliette di Blocco Studentesco e toppe con il tricolore, e comprano vestiti Pivert, il marchio d’abbigliamento legato a Casa Pound». Ma sono fenomeni marginali. La grande maggioranza dei nuovi italiani preferisce il mimetismo: volete sapere come la penso politicamente? seguitemi su Instagram.