di Massimo Basile (repubblica.it, 3 novembre 2022)
Un oscuro uomo d’affari russo, un lobbista americano, un circolo esclusivo nel cuore di Manhattan. E, naturalmente, Donald Trump e Vladimir Putin. In un lungo articolo il New York Times unisce i tasselli del “Piano Mariupol”, un puzzle che, per la prima volta, vede insieme l’hackeraggio russo alle presidenziali americane del 2016 e l’avanzata dei carrarmati di Putin in Ucraina.
Il Russiagate e la guerra, unite in un intreccio internazionale in cui Trump e Putin appaiono soci in affari. La data di partenza è il 28 luglio 2016. La notte in cui Hillary Clinton accettava la nomination del partito democratico per le presidenziali, il direttore della campagna di Donald Trump, l’avvocato e lobbista Paul Manafort, aveva ricevuto una criptica email da Mosca. Gli era stata inviata da un socio d’affari, Konstantin Kilimnik, cittadino russo legato all’esercito che gestiva la società di consulenza di Manafort a Kiev. Kilimnik chiedeva un incontro di persona.
Il messaggio in codice era “caviar”, caviale, riferimento a un ex cliente che gli aveva regalato un indimenticabile vasetto di caviale da 30mila dollari: quel munifico cliente era il deposto presidente ucraino Viktor Yanukovych, l’uomo scappato in Russia nel 2014 dopo le proteste di Maidan. Cinque giorni prima i due si erano incontrati al Grand Havana Room, circolo esclusivo al 39° piano di un grattacielo sulla Fifth Avenue al numero 666. Kilimnik aveva mostrato a Manafort un piano segreto, chiamato “Mariupol”, che prevedeva l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin e la creazione di una repubblica autonoma a Est, il cui nuovo “presidente” sarebbe stato proprio Yanukovych.
I russi, sostiene il New York Times, erano certi che se Trump fosse diventato presidente grazie al Cremlino quel piano non avrebbe incontrato ostacoli. Nelle settimane successive hacker russi avrebbero intensificato gli attacchi per danneggiare la Clinton e aiutare Trump a vincere le elezioni. Tra i documenti citati c’è il “testo madre” di tutto: una nota inviata nel 2005 da Manafort a un oligarca russo vicino a Putin, Oleg Deripaska, e citata in un report della commissione Intelligence del Senato. Manafort promuoveva il patto di fratellanza con Yanukovych e indicava la strategia per permettergli di vincere le elezioni, un modello, aveva aggiunto, che poteva “portare grandi benefici al governo di Putin”. Proprio sotto l’ala protettiva di Manafort, Yanukovych è arrivato alla vittoria nelle presidenziali.
Sei anni dopo si sarebbe saldata la seconda parte della storia: Manafort consigliere di Trump. Kilimnik, il suo referente e anello di congiunzione con il Cremlino. Il tycoon avrebbe spiazzato l’establishment dando solo un tiepido sostegno alla Nato e dicendo che difendere l’Ucraina dall’invasione della Russia non sarebbe valso il rischio di scatenare la Terza guerra mondiale. Poi disse che avrebbe considerato la possibilità di riconoscere la Crimea come territorio russo. Aiuti militari a Kiev erano stati bloccati dal consigliere alla sicurezza nazionale di Trump, J.D. Gordon.
I quattro anni di presidenza del tycoon sarebbero stati, dunque, una tappa di avvicinamento all’ora chiave. Ma la vittoria di Joe Biden nel 2020 aveva complicato i piani del Cremlino, anche se non fermato il presidente russo. Trump, prima di lasciare la Casa Bianca, aveva graziato Manafort, condannato per bancarotta fraudolenta e per aver mentito all’Fbi. Tredici mesi dopo, Putin, anche senza più il suo amico Trump a Washington, avrebbe mosso i carrarmati verso l’Ucraina.