di Fabrizio Acanfora (ilpost.it, 9 aprile 2025)
Durante le celebrazioni per l’insediamento presidenziale di Donald Trump alla Capital One Arena, a Washington, Elon Musk ha portato la mano destra al cuore e poi ha teso il braccio verso l’alto. Un movimento rapido e deciso che in tante e tanti abbiamo interpretato come un saluto fascista.
Allo stesso tempo c’è stato chi ha cercato di ridimensionare quel gesto attribuendolo alla diagnosi di autismo di Musk, come espressione di una sua presunta goffaggine sociale e non di una sua precisa convinzione politica. Poche settimane dopo la tendenza a utilizzare una diagnosi come giustificazione per determinate condotte è emersa nuovamente quando il rapper Kanye West ha dichiarato di essere autistico, suggerendo implicitamente che quella diagnosi potrebbe spiegare certi suoi comportamenti controversi tra cui dichiarazioni antisemite e di apprezzamento per Hitler.
La discussione che è seguita al saluto di Musk e alle dichiarazioni di West hanno messo in luce una dinamica insidiosa, cioè la tendenza a inquadrare la neurodivergenza attraverso schemi stereotipati esaltandola, giustificandola o patologizzandola a seconda della convenienza sociale e politica. Il risultato è un doppio standard che rafforza le disuguaglianze sociali e sposta l’attenzione dal vero problema, che è il contesto politico, sociale e culturale in cui tutto questo avviene.
Prima di andare avanti è utile contestualizzare la definizione di neurodivergenza. Alla fine degli anni Novanta la sociologa Judy Singer utilizzò nella sua tesi di laurea il termine neurodiversità per indicare la naturale varietà neurologica della nostra specie, riconoscendo le differenze cognitive come parte dell’esperienza umana. Successivamente l’attivista Kassiane Asasumasu ha introdotto il concetto di neurodivergenza per riferirsi alle persone il cui sviluppo neurologico si discosta da quello della maggioranza, considerato “tipico”.
Roberto Mastropasqua, studioso di disabilità e autismo, ha distinto tra neurodiversità e neurodivergenza: la «neurodiversità indica una caratteristica dell’umanità o di un ecosistema come la società, il contesto scolastico o lavorativo; […] mentre neurodivergenza indica quella categoria sociale che identifica una minoranza oppressa e marginalizzata in relazione al proprio neurotipo». Per questo motivo, «neurodivergenza include persone che hanno diagnosi di autismo, schizofrenia, sindrome di Down, disabilità intellettiva, Adhd, Tourette etc., perché queste persone sono discriminate socialmente a causa delle loro differenze neurologiche. Quindi, che la condizione sia patologica o meno, è assolutamente indifferente».
Questo significa che una condizione del neurosviluppo o una condizione psichiatrica possono sicuramente influenzare la comunicazione, l’interazione sociale e la percezione del mondo, ma da sole non determinano il sistema di credenze e di valori di una persona. Dire che West ha lodato Hitler o che Musk ha fatto quel gesto perché hanno una diagnosi di autismo significa stabilire arbitrariamente una relazione di causa-effetto inesistente. È un modo per ridurre una scelta ideologica e politica a una manifestazione clinica, sottraendo così la persona alla responsabilità morale e politica delle proprie azioni e delle proprie idee.
Questa dinamica non si applica allo stesso modo a tutte le persone. La società è indulgente verso l’eccentricità di chi ha potere e influenza perché quella diversità, spettacolarizzata, è vista come una curiosità inoffensiva, persino affascinante – e soprattutto viene giustificata in quanto funzionale alla logica produttivistica dominante. Personaggi come Musk e West sono tollerati e perfino giustificati perché “hanno successo”, cioè perché generano profitto e muovono il mercato. È l’utilità economica a rendere accettabile le loro peculiarità sociali e relazionali. Quando invece le stesse peculiarità si manifestano tra le persone comuni, soprattutto in contesti svantaggiati o socialmente marginalizzati, la reazione cambia radicalmente. Non è un caso se negli Stati Uniti su oltre 700 bambine e bambini arrestati nelle scuole elementari durante l’anno scolastico 2017-18, la metà fossero neri e i bambini disabili quattro volte più a rischio di arresto rispetto agli altri studenti.
Due casi concreti, per quanto non necessariamente indicativi di una regola: in Tennessee un ragazzino autistico di tredici anni è stato arrestato dopo aver detto alla sua insegnante di non aprire il suo zaino perché altrimenti la scuola sarebbe esplosa. Dentro c’era solo un peluche, ma gli insegnanti hanno chiamato lo stesso la polizia e il ragazzo è stato portato via in manette. Sempre negli Stati Uniti un bambino autistico di sette anni è stato bloccato a terra da un agente di polizia per trentotto minuti dopo aver sputato a un insegnante. Il bambino è stato immobilizzato con il ginocchio dell’agente sulla schiena e ammanettato di fronte al personale della scuola.
Non serve allontanarsi tanto, poiché episodi di questo tipo avvengono anche in Italia. Nel novembre del 2021 Yassine Khalfallah, un sedicenne autistico e con sindrome di Tourette, è stato ammanettato e immobilizzato a terra dalla polizia dopo essere fuggito da scuola, a Brescia. Non è chiaro chi abbia chiamato le forze dell’ordine, ma l’intervento è stato giustificato con un presunto comportamento aggressivo. Il trauma ha compromesso ulteriormente le condizioni di Yassine, che nella notte del 19 dicembre è caduto dalla finestra di casa morendo poco dopo in ospedale.
Questa dinamica di criminalizzazione s’inserisce in un contesto politico e sociale più ampio, segnato da una crescente tendenza a gestire la neurodivergenza attraverso strumenti di controllo e coercizione. Negli ultimi tempi assistiamo a un ritorno a logiche istituzionalizzanti che ricordano le politiche manicomiali del passato. Un esempio evidente di questa deriva è il Ddl 1179, presentato dal senatore Francesco Zaffini di Fratelli d’Italia, una proposta di legge attualmente in discussione che, tra le altre cose, faciliterebbe l’attivazione dei Trattamenti Sanitari Obbligatori (Tso). Il disegno di legge prevede la possibilità di contenere fisicamente o farmacologicamente le persone con condizioni psichiatriche in caso di «pericolo concreto e attuale», una definizione che lascerebbe ampia discrezionalità nel decidere cosa costituisca una minaccia.
In Argentina il governo Milei, attraverso il progetto di legge Omnibus, intende smantellare la legge sulla salute mentale (Ley 26.657) approvata nel 2010 dopo anni di confronto con organizzazioni per i diritti umani, utenti e operatori sanitari. La legge attuale promuove un approccio interdisciplinare e intersettoriale, blocca l’istituzione di nuovi manicomi e limita l’internamento a casi estremi. La riforma di Milei vorrebbe ribaltare questa impostazione ampliando i criteri dell’internamento involontario, consentendo ai giudici di ordinare il ricovero anche in assenza di una valutazione medica e introducendo la possibilità di richieste da parte di familiari o tutori anche se non c’è un pericolo concreto. La riforma, di fatto, tratta la salute mentale come una questione di ordine pubblico piuttosto che di cura e diritti.
L’impressione è che si stia ritornando a una logica per cui chi si comporta in modo non conforme, manifesta disagio o crisi emotive non è una persona che potrebbe avere bisogno di aiuto, ma una minaccia da neutralizzare. La differenza tra una crisi psicotica, un meltdown autistico o un atto criminale diventa una questione di interpretazione soggettiva. E, in un sistema che tende a medicalizzare e punire i comportamenti non conformi, questa è una deriva estremamente pericolosa.
In quest’ottica la neurodivergenza viene accettata solo entro certi limiti: sei accettabile se appartieni a una classe privilegiata, o se riesci a trasformare la tua condizione in un talento o in una performance straordinaria. Insomma, se sei un rapper famoso o l’uomo più ricco del mondo. L’idea della ragazza autistica geniale o dell’Adhd iper-produttivo funziona perché premia chi è utile al mercato. Ma per quale ragione una persona neurodivergente dovrebbe essere socialmente accettata solo se è in grado di eccellere? E perché mai l’autismo, la sindrome di Tourette o la dislessia devono essere giustificati con la genialità per essere considerate condizioni accettabili? La mia impressione è che stiamo trasformando la diagnosi in un’etichetta che attribuisce valore, quando non dovrebbe essere né un trofeo né una condanna, ma uno strumento per capire i bisogni di una persona e offrirle il supporto (sociale, medico, farmacologico) grazie al quale poter vivere al meglio la propria vita.
L’ultimo aspetto da considerare va oltre la criminalizzazione. Mentre ci si divide sulle dichiarazioni o sui gesti di alcune persone famose, potenti e visibili, si continua a smantellare lo Stato sociale, a ridurre le tutele della popolazione e a rafforzare gli squilibri economici. Persone come Musk o West sono sintomi di un sistema che premia la provocazione, la competizione e la performance, mentre patologizza e marginalizza la non conformità di chi non è funzionale. La questione centrale è ancora il modo in cui la società accetta le differenze neurologiche, relazionali e comportamentali solo se produttive o straordinarie, e le criminalizza quando sfuggono a questi schemi. Finché non metteremo in discussione questo meccanismo – il bisogno di giustificare l’esistenza attraverso le categorie della performance e dell’utilità – continueremo a trattare alcune persone come un problema da risolvere, invece che come cittadine e cittadini a pieno diritto.