di Ilaria Maria Sala (internazionale.it, 26 agosto 2021)
Non solo Hong Kong ha reintrodotto la censura cinematografica, con una nuova legge che renderà illegali i film che contravvengono a quella sulla sicurezza nazionale, ma è stato anche stabilito che i film approvati prima, girati anni fa, dovranno essere sottoposti al vaglio dei censori prima di poter approdare nelle sale commerciali, nelle università, nelle scuole o in altri luoghi aperti al pubblico. Il lavoro dei censori per il momento è invidiabile: potranno sedersi in un cinema privato a guardarsi molti film. Però finisce lì, non è né invidiabile né rispettabile che stia a loro decidere che alcuni di questi film possano contenere elementi di “secessione, sovversione, terrorismo o collusione con forze straniere”.
Per un’industria cinematografica anarchica come quella di Hong Kong, che fin dalle prime decadi del secolo scorso ha raggiunto i suoi apici proprio grazie al fatto di poter girare i film che non era possibile fare in Cina, si tratta di un colpo brutale. Ma certo, ormai i colpi brutali non si contano. Non è che ci si abitui, ma tutto si deteriora così in fretta che lo sgomento lascia posto a una sorta di costante apprensione rispetto a tutto quello che viene stravolto. Sei anni fa, quando uscì il film Ten years, non si poteva parlare d’altro: “Hai visto Ten years?”, “Lo hai visto?”, “E tu, hai visto Ten years?”. Non era solo la domanda di chi lo ha visto per primo e vuole darsi un certo tono, ma il fatto che vederlo non era facile, perché, dopo circa tre settimane di tutto esaurito, non veniva più proiettato nelle sale commerciali. Questo malgrado il successo di critica e botteghino, e il fatto che si trattasse del film con il maggiore impatto della cinematografia di Hong Kong in un momento in cui sembrava a corto di idee.
La stampa cinese lo aveva criticato, e quindi già allora (sono passati sei anni ma oggi sembrano mille) il film veniva boicottato dalle sale commerciali. Un po’ come i film hollywoodiani che vogliono essere venduti in Cina (malgrado tutti i limiti imposti dalla censura cinese) e quindi evitano temi o attori invisi al governo di Pechino, così i distributori di Hong Kong, spesso attivi sul mercato cinese o speranzosi di esserlo, stavano alla larga da Ten years. E quindi bisognava scambiarsi freneticamente le informazioni sulle proiezioni spontanee che avvenivano in sale private, o su muri all’aperto – cinque anni fa tutto questo era ancora possibile. Dopo poco fu creata una pagina Facebook dove si indicavano le proiezioni e, visto che anche quelle andavano tutte esaurite in poco tempo, il 1° aprile 2016 trenta posti diversi a Hong Kong lo proiettarono contemporaneamente, e poi ci fu una discussione online con uno dei registi. Viene da dire: che tempi.
Composto da cinque corti girati da cinque registi diversi, Ten years era, nel 2016, la declinazione di una Hong Kong che sembrava impensabile, schiacciata dai controlli; dove la lingua locale, il Cantonese, era sostituita per ordine governativo dalla lingua imposta dalla Cina, il Mandarino; dove i bambini, formati da scuole patriottiche, attaccavano i padri se osavano, per esempio, vendere “uova locali” nel loro negozietto di alimentari. E dove una manifestante pro-democrazia si immolava, dopo che null’altro aveva suscitato l’attenzione delle autorità. L’attaccamento a qualsiasi cosa “locale” era visto come un segno di scarso affetto per la Cina, la madre patria assoluta che doveva spazzare via ogni tipo di amore per Hong Kong in quanto entità culturalmente diversa. Il film era uscito un anno dopo la fine delle manifestazioni del 2014, organizzate dal Movimento degli Ombrelli (Occupy Central). Parlava a chi si disperava per un governo che aveva lasciato tre mesi per strada, giorno e notte, degli adolescenti che chiedevano il suffragio universale, senza mai accettare un dialogo con loro.
Racconto tutto questo perché la scure che si è abbattuta su Hong Kong insieme alla pandemia è arrivata in un cielo che da anni non era sereno, ma non per questo ci si aspettava che le giornate di Sole diventassero un’utopia. Una mia amica dalla Cina continentale, che qui chiameremo Yiyun anche se si chiama in un altro modo, ha reagito tutto sommato senza sorpresa, dicendo: “Fa lo stesso! Guarderemo i film su Internet. In Cina è così da quando sono nata e i registi indipendenti esistono lo stesso”. Per chi è abituato alla cinematografia di Hong Kong è un’idea alla quale magari bisognerà abituarsi, ma prima ci si deve riprendere dall’orrore. La censura retroattiva certo consentirà di vedere i film su siti ospitati fuori da Hong Kong, come dice Yiyun, però l’angoscia che questo provoca non è da poco. E il futuro, che spazio lascia? I film di Hong Kong verranno girati all’estero? Con quali budget, con quale pubblico? E poi non è solo questo. Nel 1997, al Festival del cinema di Hong Kong (che era ancora il più importante dell’Asia, prima del lento erodersi delle libertà, diventato ora rapidissimo), era stato deciso di trasmettere tutti i film che i britannici avevano censurato nei loro 150 anni di potere coloniale su Hong Kong.
La lista è interessante: nel 1997, per esempio, fu proiettato per la prima volta La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo, che, secondo la censura coloniale, “mette in cattiva luce il colonialismo” (verrebbe da ridere). Ma già allora si proibivano pellicole per non far arrabbiare la Cina: Dersu Uzala, di Akira Kurosawa, fu censurato perché poteva dare l’impressione di essere dalla parte dell’Unione Sovietica nel litigio con la Cina sulla frontiera. Una disputa nella quale i britannici non volevano entrare. Da lontano, può sembrare una sorta di giustizia poetica, un cerchio che si chiude. Da qui, l’attacco all’industria artistica e creativa, in tutti i suoi aspetti, mostra che quello che la Cina vuole unificare è il pensiero di chi vive a Hong Kong. E, per quanto ne so io, persone come Yiyun, che riescono a mantenere senso critico e indipendente malgrado tutto e tutti, sono rarissime.