di Gianni Del Vecchio (huffingtonpost.it, 31 luglio 2021)
Che nel secondo Dopoguerra Roma pullulasse di nazisti in fuga verso il Sudamerica o il Medio Oriente lo si sapeva. Che nella loro permanenza fossero aiutati e sostenuti da importanti pezzi delle gerarchie vaticane pure lo si sapeva. Che tutto ciò avvenisse con il beneplacito dei servizi segreti americani – che utilizzavano le ex prime linee di Hitler in chiave anticomunista – è ormai verità storica conclamata. Che invece tanti di loro, almeno tre ma forse di più, sbarcassero il lunario recitando in ruoli minori in importanti film italiani – come Una vita difficile di Dino Risi o La caduta degli dei di Luchino Visconti – è meno noto. O meglio: è noto per lo più a storici e addetti ai lavori.
Che poi le parti a loro assegnate fossero autobiografiche – soldati tedeschi cattivi e senza cuore –, beh, questo è il classico caso in cui la Storia diventa farsa. O più precisamente, visto che parliamo di Cinecittà, è il caso in cui il confine fra finzione e realtà più che superato viene completamente abbattuto. Borante Domizlaff, Maggiore delle SS, Karl Hass, anche lui Maggiore delle SS, e Otto Wachter, Generale delle SS nonché governatore della Galizia e responsabile della morte di centinaia di migliaia di ebrei: sono loro i tre ufficiali tedeschi che si guadagnavano il gettone “da 10mila Lire” per le comparsate cinematografiche. Con un ulteriore dettaglio che ha del paradossale – come se del paradosso non ce ne fosse a sufficienza in questa vicenda: due di loro, Domizlaff e Hass, parteciparono attivamente all’eccidio delle Fosse Ardeatine a Roma del 1944. Ma si sa, la Città Eterna perdona facilmente i propri figli prodighi, figurarsi quelli che vengono da lontano, in questo caso gli ex occupanti tedeschi.
Il mistero Domizlaff
Uno dei film più belli di Dino Risi, Una vita difficile, si apre con il partigiano Silvio, interpretato superbamente da Alberto Sordi, che in piena Seconda guerra mondiale cerca di sfuggire alla caccia nazista trovando rifugio in un albergo sul Lago di Como. Sfortunatamente per lui, però, viene scoperto da un ufficiale tedesco che intende fucilarlo sul posto. “Traditore italiano! Tu hai sparato ai camerati tedeschi”, gli urla mentre gli punta la pistola. Ma proprio un secondo prima dello sparo ecco che Elena (Lea Massari), la figlia della proprietaria dell’albergo, gli salva la vita uccidendo il tedesco con un ben assestato colpo di ferro da stiro. Sembra incredibile, ma quel soldato non era un attore né un figurante qualsiasi. Era bensì qualcuno che a esecuzioni e crudeltà era avvezzo. Realmente avvezzo. Stiamo parlando di Borante Domizlaff, vero Maggiore delle SS, che quell’uniforme non la portava per travestimento ma per convinzione.
Durante l’occupazione tedesca di Roma, sotto il comando del Colonnello Herbert Kappler, Domizlaff aveva partecipato alle operazioni di rastrellamento e poi all’esecuzione dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, con il quale il 24 marzo 1944 vennero uccisi 335 italiani, scelti tra civili, militari, prigionieri politici, detenuti comuni e cittadini di origine ebraica. Per questo Domizlaff fu poi processato nel 1948 da un tribunale militare italiano assieme ad altri suoi sei colleghi, ma incredibilmente assolto per aver agito “nell’esecuzione di un ordine”. Alla fine, infatti, fu condannato solamente il Colonnello Kappler. Domizlaff continuò a vivere a Roma fin oltre il 1961, anno in cui il film di Risi fu girato, come ricostruisce bene il giornalista Mario Tedeschini Lalli, che da un lustro sta cercando di mettere assieme i pezzi della vita romana del Maggiore SS. Secondo lui, “l’unico lavoro che a quanto pare svolgeva era proprio nell’ambito del cinema: i famigliari ricordano vagamente che fosse traduttore Italiano-Tedesco a Cinecittà”. Ma, soprattutto, Tedeschini Lalli dà per certo che Domizlaff partecipò vestito da soldato tedesco ad almeno altre due produzioni di Cinecittà, anche se i ruoli non gli furono mai ufficialmente accreditati.
Hass, il nazista a stelle e strisce
La caduta degli dei è uno dei capolavori di Luchino Visconti, il primo atto della sua “trilogia tedesca” [con Morte a Venezia (1971) e Ludwig (1973), N.d.C.], un film che racconta l’ascesa del nazismo attraverso la saga di un’aristocratica famiglia proprietaria di grandi acciaierie, industrie fondamentali per lo sforzo bellico imposto da Hitler. La pellicola è del 1969 e in quell’anno viveva indisturbato, a pochi chilometri da Cinecittà, Karl Hass, Maggiore delle SS e vice di Herbert Kappler nel 1944. Sì, proprio quel Kappler che aveva dato l’ordine di trucidare gli italiani alla Fosse Ardeatine. Hass organizzò il massacro assieme a un altro nome ben noto alle cronache nazionali, e cioè Erich Priebke. Non a caso, durante il processo a Priebke tenuto nel 1996, Hass fu costretto ad ammettere le sue colpe: aver eseguito l’ordine abominevole di Kappler e, soprattutto, aver sparato di proprio pugno ad almeno due persone. Ebbene, Hass è il secondo ufficiale ad aver lavorato a Cinecittà.
Come scrive lo storico Fabio Simonetti nel libro Via Tasso, il Maggiore delle SS partecipò alle riprese del film di Visconti interpretando il ruolo – ovviamente – di un ufficiale nazista. Ma come ha fatto Hass a sfuggire per anni alla giustizia italiana e, soprattutto, a vivere nel nostro Paese fino al processo del 1996? Semplice: vendendosi ai servizi segreti americani. Nel Dopoguerra, infatti, il Cic (Counter Intelligence Corps), l’antenato della odierna Cia, pensò bene di reclutare una serie di militari nazisti in chiave anticomunista, in questo aiutato da alcune frange della gerarchia vaticana. In particolare, Hass lavorava al soldo dell’agente segreto americano Thomas Lucid in cambio di protezione e a Roma si appoggiava al vescovo benefattore di tanti nazisti, Louis Hudal. Una rete – esposta dettagliatamente dal libro-inchiesta La via di fuga dell’accademico britannico Philippe Sands – che lo faceva sentire così al sicuro da togliersi lo sfizio di comparire sul grande schermo in divisa nazista venticinque anni dopo le Fosse Ardeatine. Venticinque anni vissuti da uomo libero.
10mila Lire per Otto Wachter
Proprio Sands ci conduce al terzo SS che amava costumi e macchine da presa. Stiamo parlando di Otto Wachter, sicuramente il nazista più potente dei tre, nonché quello che ha più morti e nefandezze a suo carico. Wachter infatti è stato l’artefice della creazione del ghetto di Cracovia, ma soprattutto è stato il “burocrate” che, in qualità di governatore della Galizia – regione che oggi appartiene all’Ucraina –, agevolò la soluzione finale per centinaia di migliaia di ebrei che abitavano a Leopoli e dintorni. Sands racconta per filo e per segno gli anni in cui Wachter, nazista della prima ora, di origini austriache, ha soggiornato a Roma fra conventi e strutture vaticane in attesa d’imboccare la via di fuga verso l’Argentina. E lo fa potendo contare su quello che si può definire il “sogno bagnato” di ogni storico: le lettere che Wachter si scambiava con la moglie nel periodo di latitanza.
Proprio da questa corrispondenza viene fuori la carriera cinematografica di Otto, che racconta alla sua Charlotte dei due film in cui partecipò come comparsa nel 1949. Il primo fu La forza del destino, lungometraggio basato sull’opera di Giuseppe Verdi il cui protagonista era il famoso baritono Tito Gobbi. Un’esperienza che soddisfece il boia di Leopoli sia artisticamente, sia economicamente. “Ho guadagnato i miei primi soldi come comparsa” scrisse entusiasta, “10mila Lire in soli tre giorni!”. Ma è la sua seconda apparizione a essere clamorosa. Dopo qualche settimana fu ingaggiato come figurante in Donne senza nome dell’ungherese Geza von Radvanyi, regista famoso soprattutto per essere il fratello di Sandor Marai, quello del romanzo Le braci. Ebbene, è qui che il caso ci mette lo zampino producendosi in un incredibile ribaltamento di piani: Wachter, nazista fino al midollo, recita infatti come agente della polizia militare americana. Perfetta nemesi artistica, prima ancora che storica. Chissà cosa avrebbe pensato, se l’avesse visto, il commilitone Hass, lui sì prezzolato dagli statunitensi per salvarsi la pelle. Peraltro i due si conoscevano bene e a quei tempi amavano nuotare assieme nel Lago di Albano, ai Castelli romani. Ma questa è un’altra storia. Anzi, tutto un altro film.