di Giulio Zoppello (wired.it, 17 ottobre 2022)
L’avvocato del diavolo compie un quarto di secolo. Analizzarlo oggi, significa fare i conti con un film che continua a dividere nelle opinioni e nelle analisi, tra chi lo vede come uno dei migliori horror-thriller degli anni Novanta, in grado di farsi carico dello spirito di un’epoca, e chi invece un semplice film d’intrattenimento pretenzioso, a tratti davvero inconsistente. Chi scrive propende per la prima ipotesi.
Perché appare innegabile che, all’interno del suo genere, sia un film sì magari imperfetto, ma incredibilmente potente, ricco di contenuti e idee a lungo sottostimati. Il tutto a maggior gloria di uno straordinario Al Pacino e di un Keanu Reeves che prendeva la rincorsa per diventare il mito che poi è diventato. E quindi: buongiorno Satana, come sei stato in questi 25 anni?
A spasso col Diavolo nella Grande Mela
La trama de L’avvocato del diavolo la conosciamo tutti. Kevin Lomax (Keanu Reeves) è un promettente, ambiziosissimo e giovane avvocato di una città sperduta della Florida, che riceve un’offerta apparentemente irrinunciabile: lavorare per un esclusivo studio legale di Manhattan. Il suo nuovo capo è il carismatico, ricco e potente John Milton (Al Pacino), che pare voler fare di Kevin il suo futuro erede, spianando la strada nella Grande Mela a lui e alla giovane moglie Mary Ann (Charlize Theron). Ma nel giro di poco tempo, tra eventi misteriosi e sanguinosi, e clienti a dir poco inquietanti, Kevin dovrà accettare la terrificante ma chiara verità: ha letteralmente firmato un patto col Diavolo in persona e non è chiaro come potrà uscirne.
Tratto dal romanzo di Andrew Neiderman e sceneggiato da Tony Gilroy e Jonathan Lemkin, L’avvocato del diavolo [Devil’s Advocate, di Taylor Hackford, 1997] conquistò il pubblico ma lasciò incerta la critica. In molti trovarono difficile andare oltre il deus ex machina del film: un Al Pacino letteralmente indiavolato, in una delle sue migliori interpretazioni. In molti concordarono con il grande Roger Ebert, che definì il film un mix poco riuscito tra L’esorcista di William Friedkin e un best-seller di John Grisham. Tuttavia, come sovente accade, il tempo è stato galantuomo e, con il passare degli anni, oltre a diventare un cult assoluto del genere, L’avvocato del diavolo ha potuto rivendicare il rappresentare appieno gli ideali, i totem culturali e le ipocrisie della società americana, nonché di un decennio, quello degli anni Novanta, che viene continuamente ricordato da molti come l’ultima vera grande decade.
Dal punto di vista semantico, bisogna poi ammettere che il film ancora oggi può rivendicare un iter narrativo tutt’altro che privo di fascino, che omaggiava il grande Dante Alighieri, Paradiso Perduto di Milton, il Faust di Goethe, e mille altri riferimenti a quella letteratura e a quel cinema che avevano cercato di parlarci della tentazione, del peccato, dell’uomo come motore della propria stessa rovina. L’ambizione, in particolare, unita al materialismo, al consumismo, a un individualismo spietato, la faceva da padrone in un iter inquietante, affascinante e attraversato da una sessualità torbida e disturbante. E nonostante Keanu Reeves non fosse sempre puntuale nella sua interpretazione (le reprimende di Al Pacino sono ancora oggi leggenda), paradossalmente la sua goffaggine rese ancor più credibile il suo personaggio.
Demolendo il sogno americano
L’avvocato del diavolo è un film che vive non solo di contrapposizione e contrasti, ma anche di una metamorfosi mostruosa e continua del protagonista, perso in una città che diventa un labirinto da incubo, che però egli non rinnega mai veramente. Kevin Lomax è infatti un uomo che, dietro il carisma e il fascino da avvocato perfetto, nasconde una profonda insicurezza, una provincialità figlia dell’ambiente bigotto e ipocrita in cui è stato allevato e da cui vuole fuggire. Si dimostra soprattutto capace di egoismi terrificanti. Nel processo che apre il film, si rende conto che il suo cliente, accusato di molestie sessuali su una minorenne, è palesemente colpevole. Nonostante questo, spinto dall’ambizione, riesce a demolire la vittima e ad agguantare una vittoria che, di fatto, gli permette di spiccare il tanto agognato volo verso i vertici della professione.
Nel finale, dopo aver mandato a monte il piano di Lucifero di avere da lui l’Anticristo, Kevin si ritrova esattamente nello stesso processo, di fronte alla stessa scelta. Questa volta decide di abbandonare il cliente al suo destino. Forse è guarito dal suo peccato? No. Cede infatti nuovamente alle lusinghe della fama, in particolare di un giornalista che gli chiede un’intervista. “La vanità, è decisamente il mio peccato preferito” sancisce, rompendo la quarta parete, il Diavolo, nascosto sotto i panni del reporter, mentre lo guarda andarsene dopo aver accettato la proposta. L’avvocato del diavolo era quindi una metafora dell’arrivismo, della vanità che rende l’American Dream una sorta di mito tossico, che, dagli anni Ottanta yuppie, si sarebbe poi infiltrato nel decennio teoricamente liberal e progressista.
In quel 1997 si parlava con sicurezza della Terza Via, e proprio gli Stati Uniti, insieme alla Gran Bretagna, indicavano quel momento come l’apice della nostra civiltà – ancora oggi per molti –, come del resto due anni dopo Matrix avrebbe definito quegli anni. Un futuro di giustizia, benessere ed equità pareva alla portata di tutti, ma infine la società occidentale avrebbe fatto come Kevin: per vanità si sarebbe venduta ancora al capitale. Restringendo il campo alla società americana, L’avvocato del diavolo rese palese come, in fin dei conti, la dittatura del successo e della conquista, il credo yuppie tossico e corrosivo, non avesse fatto altro che cambiare la propria forma esteriore, rimanendo però l’unica, vera religione in un Paese puritano e ipocrita.
La tentazione, la colpa e il libero arbitrio
Ma, infine, occorre anche ammettere che se L’avvocato del diavolo ancora oggi ci affascina è soprattutto grazie a questo Satana così irriverente, eppure coerente, che ci tenta con una vita fatta di lussuria, sfarzo, successo e libertà assoluta, e non solo. Al Pacino bene o male cavalca i dubbi che tutti noi abbiamo sempre nutrito verso il concetto di un Dio perfetto e giusto, in particolare verso quella visione puritana che egli stesso ci mostra come assolutamente contraria ai nostri istinti naturali. “Guarda ma non toccare, tocca ma non gustare, gusta ma non digerire”. In questa frase è concentrata gran parte di quella contraddizione in termini che rende ancora oggi, secondo molti, differenti la religione dalla fede.
Fino al momento in cui non palesa a sua volta il proprio fine egoistico verso Kevin, a John Milton, Lucifero per gli amici, è difficile dare torto. Il che lo porta incredibilmente vicino a quella definizione di religione come oppio dei popoli che l’anticapitalista per eccellenza, Karl Marx, aveva plasmato tanto tempo prima. Tale idea trova conferma anche nella figura della madre di Kevin, Alice, una donna che pare spuntata da un altro tempo e da un altro secolo: bigotta, devota fino al fanatismo, per prima comprende in quale trappola si sia fatto catturare il figlio. Eppure anche lei si dimostra in ultima analisi ipocrita, codarda, capace di convivere senza problemi con le proprie menzogne. Sono le stesse in virtù delle quali l’America ancora oggi si professa il Paese più religioso dell’Occidente, salvo poi rinnegare ogni principio cristiano nella pratica.
A 25 anni di distanza L’avvocato del diavolo può quindi rivendicare di essere stato qualcosa di più di un mero film d’intrattenimento, in realtà una profezia riguardo al futuro dell’Occidente – dal punto di vista sia sociale sia spirituale – di cui oggi tutti siamo perfettamente consapevoli. La religione è tornata prepotentemente al centro della nostra politica e della nostra vita nel modo più invadente, nella sua dimensione più opprimente e oscurantista, e tutti inseguiamo non un sogno comune, ma la chimera di un egoistico percorso in cui il successo dev’essere ottenuto ad ogni costo e con ogni mezzo. Lo facciamo in nome di quel libero arbitrio che, purtroppo, non permette a noi, come non permetteva a Kevin, d’imparare dai nostri errori, di non cedere alla parte peggiore di noi stessi.