di Stefano Paolo Giussani (huffingtonpost.it, 15 settembre 2022)
Nel 1999, all’Altes Museum di Berlino campeggiava il neon di Maurizio Nannucci con la scritta “Tutta l’arte è stata contemporanea” e in molti apprezzarono. Dieci anni più tardi fu la volta degli Uffizi e si sollevò un putiferio. La verità è che la frase smuove e ogni persona in procinto di parlare d’arte dovrebbe farla propria. A me fa anche riflettere su come perfino noi stessi finiamo, prima o poi, con l’adeguarci al detto, cercando di vivere la nostra contemporaneità finché non passiamo ad altra vita. Ci sono maestri nell’adattamento, e tra questi c’è sicuramente Elisabetta II. Con più di 200 ritratti ufficiali dal suo insediamento a oggi e innumerevoli rappresentazioni unofficial – le più provocatorie, perché non filtrate dai protocolli di corte – è finita con l’essere non solo la monarca più longeva della storia ma anche probabilmente la più ritratta, per la veneranda età e anche per essere stata al centro dell’attenzione nei rapporti con 15 primi ministri Uk, 13 presidenti Usa e 5 papi.
Senza contare gli eventi minori. Andy Warhol, che la incluse nella sua serie Reigning Queens, disse un giorno che avrebbe voluto diventare famoso come lei. Il tempo ha (quasi) esaudito il suo desiderio rendendo la sua parrucca inconfondibile almeno quanto il profilo di Elisabetta, con la differenza che di lei abbiamo un film a cavallo di due secoli mentre di lui una serie di foto di fine Novecento. C’è da precisare che mentre lei sul trono ci si è trovata, l’artista newyorchese il trono ha dovuto costruirselo. Quindi anche a Warhol, timido studente figlio di immigrati della Pennsylvania diventato re della Pop Art, non possiamo non attribuire una specie di miracolo.
Alla regnante, di contro, va riconosciuta la capacità di essersi adattata al mondo che stava cambiando senza mai cambiare davvero. Ho fatto un esperimento: mettere assieme cinque suoi ritratti dal 1950 a oggi, passando dalla fotografa di corte a Banksy. Il risultato è che la figura rimane immutata. Sono arrivato alla conclusione che Elisabetta abbia trovato un denominatore comune della sua immagine e su questo ci abbia piazzato il trono. Al confronto, i truculenti aspiranti del Trono di Spade sono dei dilettanti.
Elisabetta è stata “contemporanea” di mio nonno, mia e dei miei nipoti. Il tutto a cavallo dell’epoca che ha segnato il maggior progresso tecnologico della storia umana a noi conosciuta. Dimenticando per un attimo che ci sono in circolazione 29 miliardi di monete con la sua immagine (fonte: la Zecca Reale), quello di The Queen è stato di fatto il volto più riconoscibile al mondo. Il suo primo ritratto da regina fu scattato a venti giorni dall’insediamento dalla prima fotografa di corte donna (Dorothy Wilding), quasi a segnare un destino al femminile. Nel 1969 all’italiano Pietro Annigoni fu chiesto di immortalarla per la seconda volta perché a corte piaceva quel gusto rinascimentale caratteristico dell’artista, che scelse di ritrarla senza sfondo, quasi a rimarcare che Elisabetta stava avviandosi a essere una figura senza tempo, timeless direbbero a Buckingham Palace.
I Sex Pistols ne dissacrarono l’immagine su cover e magliette coprendone il volto con scritte, Warhol la rese fluo, Lucian Freud la pennellò con i suoi tratti potenti, Banksy la saettò come Ziggy Stardust, Homer Simpson causò il ribaltamento della sua carrozza, James Bond la fece lanciare da un elicottero. L’ultimo ritratto memorabile, quello che consegna la storia alla leggenda, è di Chris Levine. Algida, occhi chiusi, sfondo neutro, sfumature glaciali, sembra già morta, ma sappiamo bene che è viva e si sta chiedendo chi sarà destinato a succederle nel pantheon delle icone, ben sapendo che, se qualcuno ci arriverà, per eguagliarla avrà il compito durissimo di essere contemporaneo per l’eternità.