La musica e la sua Queen

di Stefano Pistolini (ilfoglio.it, 14 settembre 2022)

Il rapporto tra il britpop, per decenni una delle più floride industrie britanniche, e la monarchia è stato sempre questione di cromosomi o, se volete, di ereditarietà: la regina come presenza immanente ed eterna, istituzione stabile e perenne. Motivo per cui l’attenzione degli spiriti modernisti della musica di rado s’è occupata del soggetto, se non in casi di esasperazione, attribuibili più a una reazione psicologica che a un reale fronteggiamento politico, più alla percezione di una sottomissione a una madre repressiva che a un’effettiva concezione antimonarchica. Poi la cosa si è sempre sfumata, con la regina Elisabetta tornata al suo posto come presenza inevitabile e guardata perfino con affetto, confortante icona di quell’identità nazionale satiricamente battezzata “Little Britain”.

Ph. Dave Thompson / Wpa Pool – Gi

Noel Gallagher, mente degli Oasis, ne parla in una recente intervista, sostenendo che il fascino della monarchia britannica stia progressivamente svanendo, più o meno come il richiamo della religione, lanciando un parallelismo tra le due idee: «La monarchia oggi è un po’ farsesca e chi crede che i britannici si sentano davvero dei sudditi si sbaglia di grosso». Ma poi aggiunge: «Comunque la morte della regina per molti sarà un problema, perché lei c’è sempre stata. Non è questione di essere pro o contro: siamo tutti nati che lei era già là».

Le rockstar hanno fatto ampiamente la loro parte nell’appiccicosa liturgia del dolore social seguita alla scomparsa di Elisabetta: Mick Jagger, che un tempo le diede pubblicamente della «strega», ha pubblicato su Instagram una foto della regina, scrivendo: «Per tutta la mia vita Sua Maestà Elisabetta II è sempre stata lì. Ricordo d’aver visto da bambino il suo matrimonio in tv. Una bellissima giovane donna, divenuta l’amata nonna della nazione». Il nonno del rock inglese che rende omaggio alla nonna nazionale. L’entourage della band gli ha fatto eco: «I Rolling Stones estendono la propria solidarietà alla famiglia reale per la morte di Sua Maestà, presenza costante nelle loro vite, come in innumerevoli altre». Un fedelissimo della Corona come Sir Elton John, cantore del mito monarchico da quando adattò la sua Candle in the wind alla morte di Diana (l’“England’s rose”) si è espresso con un post a lettere bianche su sfondo nero: «Una presenza che ha guidato il Paese nei momenti migliori e peggiori, sempre con grazia, decenza e calore sincero». E via di seguito: Ozzy Osbourne ha twittato: «È devastante il pensiero dell’Inghilterra senza Elisabetta II»; Victoria Beckham: «Sarà ricordata per la lealtà e i miei pensieri sono con la famiglia reale»; i Duran Duran citano Elisabetta come «esempio straordinario».

Questo rapporto di prossimità ha radici profonde, che risalgono alla felice intuizione della Casa Reale di tentare l’annessione della Beatlemania nominando baronetti i Fab Four (con John nella parte del discolo che raccontava di uno spinello fumato nei bagni di Westminster). Gli stessi Beatles ammettono la presenza dell’entità regnante nelle parole delle loro stesse canzoni, come in Penny Lane, che parla di un pompiere che porta in tasca “un ritratto della regina”, o in Abbey Road, che contiene il pezzo-scheggia Her Majesty (solo 25 secondi), scritto da Paul in affettuoso stile music-hall, nel quale Elizabeth “cambia di giorno in giorno” ma non smette d’essere l’oggetto del suo sguardo.

Finché non arriva la crisi, la ribellione contro l’autorità costituita. Nell’acre ed esibizionistica èra punk i sentimenti cambiano direzione (Pistol, la nuova serie di Danny Boyle su Apple+, lo racconta in modo impeccabile) e nel ’77 i Sex Pistols pubblicano God Save the Queen per celebrare a modo loro il giubileo della regina, la “Queen” che loro fanno rimare con l’anatema “Fascist Regime”. La tregua è finita. Nel grande saggio critico England’s Dreaming, Jon Savage rievoca il momento: «Ciò che era terrificante del giubileo era l’assoluta unanimità: l’unica copertura stampa critica era sul New Statesman, mentre i festival antigiubileo venivano trattati come sciocchezze. Qualsiasi voce dissenziente era messa a tacere». È così che Malcolm McLaren, manager dei Sex Pistols, intravede la straordinaria opportunità promozionale del far innalzare ai suoi protetti il vessillo della protesta, convincendo Johnny Rotten a trasformare No Future, la canzone nichilista su cui stava lavorando, nell’invettiva personalizzata contro la sovrana. Quando God Save the Queen raggiunge il numero 2 delle classifiche, ingiustamente esclusa dalla prima posizione a favore di un meno compromettente pezzo di Rod Stewart, la provocazione costituisce uno choc. Al confronto la sfacciataggine di Freddie Mercury, che aveva assunto l’identità di Queen per le proprie ambigue performance, è puro intrattenimento.

L’attacco del pop diventa frontale. Sebbene Rotten venga aggredito per strada da una banda di supporter del vecchio ordine al grido «Noi amiamo la regina, bastardo!» (due tendini recisi da una coltellata), l’argine è rotto: gli anni Ottanta britannici sono il tempo di disoccupazione e divisione di classe e i ragazzi con le chitarre attaccano la regina per ciò che rappresenta. Morrissey canta la sfottente The Queen is Dead, in cui Elisabetta è l’emblema di un impero dissoluto. Ian Brown, degli allora popolarissimi Stone Roses, gli fa eco in Elizabeth My Dear, gridando: «Non riposerò finché non avrà perso il trono». I Manic Street Preachers non vanno per il sottile in Repeat (“Ripeti con me / Fanculo la regina”). Rivaleggiando con l’odiata Margaret Thatcher, la sovrana diventa simbolo dei privilegi immeritati, dell’ingiustizia sociale e del conservatorismo sclerotico, intercettando il sentimento di ostilità contro l’intero establishment britannico. I Pet Shop Boys, in Dreaming of the Queen, ritraggono Elizabeth come una figura triste, che beve il tè con una Diana sconsolata. This is a Low dei Blur di Damon Albern la dipinge come un personaggio smarrito: “La regina ha fatto il giro della curva / ed è saltata giù da Land’s End”.

L’ondata di ostilità si placa soltanto nei pieni anni Novanta, quando le prospettive economiche del Paese iniziano a migliorare. Il bello è che oggi sia Morrissey sia John Lydon (ex Johnny Rotten) non nascondono le loro simpatie reazionarie: Lydon come accanito fan di Donald Trump e Morrissey come sostenitore del movimento d’estrema destra For Britain. L’ondata Cool Britannia, comunque, rimette l’Inghilterra blairiana al centro della mappa musicale, Le Spice Girls fotografate nel ’97 con la regina Elisabetta e il principe Carlo sono l’emblema di un legame che torna a cementarsi. La monarchia ha superato senza troppi danni la contestazione musicale, mentre i temi delle canzoni di successo si spogliano di responsabilità politiche e tornano alle abituali questioni introspettive. La musica inglese si avvia su traiettorie tangenziali, la critica sociale le appartiene sempre meno e ci vuol poco a ristabilire l’ordine costituito. Non a caso la monarchia riprende a distribuire onorificenze, facendo il suo nel gioco delle parti.

Il chitarrista dei Pink Floyd Dave Gilmour viene nominato commendatore dell’Ordine dell’Impero britannico nel 2003, Sting diventa Cavaliere dalla Regina, poi tocca a Kate Bush nel 2012, ad Adele l’anno seguente, a Rod Stewart nel 2016. Mick Jagger viene fatto oggetto degli sfottò di Keith Richards per aver accettato l’onorificenza, declinata però da David Bowie e Paul Weller. Nel 2017 perfino Ed Sheeran diviene “Member of British Empire” per i suoi servizi alla musica. La medaglia sul petto gliela mette il principe Carlo e lui dichiara: “Mio nonno sarebbe stato fiero di me”. La monarchia premia il successo, sottolinea il valore economico, si astiene da giudizi sui contenuti. Un rapporto di convivenza che rinnova il suo canone e che fin qui ha dimostrato di funzionare a dispetto dell’apparente contraddizione. La sensazione è che col nuovo re le cose continueranno in questa direzione, in una rinnovata complicità che vuole avere riflessi benigni, perfino mecenateschi, ma che soprattutto rivela la convinzione che “it’s the economy, baby”. Ovvero che in uno Stato moderno possa essere contemplata anche una stravagante distribuzione dei ruoli, a patto che i protagonisti siano contenti e che il pubblico, se non altro, abbia di che intrattenersi.

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