(ilpost.it, 31 agosto 2022)
A mezzanotte passata del 31 agosto 1997, 25 anni fa, Diana Spencer e Dodi al Fayed stavano per lasciare l’hotel Ritz di Parigi, dove avevano cenato. La principessa del Galles e il suo compagno avevano deciso di mangiare nella suite imperiale (da 6mila sterline a notte) perché al ristorante i presenti non facevano altro che fissarli. Diana ordinò uova strapazzate, asparagi e una sogliola. Dopodiché uscirono per tornare all’appartamento di al Fayed, sugli Champs Élysées. Con una Mercedes S280 nera cercarono di seminare i paparazzi che li seguivano da ore. A guidare la grossa e potente berlina era Henri Paul, responsabile della sicurezza del Ritz, che la spinse ben oltre i 200 chilometri all’ora per le strade parigine. Un fotografo raccontò poi di aver visto la Mercedes passare col rosso a Place de la Concorde.
A mezzanotte e ventiquattro minuti la Mercedes entrò nel sottopassaggio di Place de l’Alma a una velocità presumibilmente vicina ai 150 chilometri all’ora. L’auto perse aderenza e si schiantò frontalmente contro un pilone di cemento. Henri Paul e al Fayed morirono all’istante. Diana morì alle 4 di mattina, per via dei forti traumi al petto e alla testa. Aveva 36 anni. Dire che la notizia della sua morte fu uno shock per i media e per moltissime persone nel mondo non è un’esagerazione. Prima moglie del principe Carlo, l’erede al trono britannico, oggetto di attenzioni mediatiche spasmodiche e intrusive per quasi tutta la sua breve vita, Diana entrò nella cultura popolare molto presto e non ne uscì più: anzi, il mito che la circonda ancora oggi crebbe anche dopo la fine del matrimonio e s’intensificò ulteriormente in seguito alla morte prematura, in una dinamica non dissimile da quella di personaggi come Marilyn Monroe e John F. Kennedy. Ma le ragioni che stanno dietro al longevo mito di Diana sono peculiari e a loro modo uniche, perché hanno a che fare tra le altre cose con il ruolo che ebbe nella famiglia reale, con il suo carattere, con il suo aspetto fisico e con la sua immagine pubblica.
Diana Spencer nacque il 1° luglio 1961 a Sandringham, nella contea di Norfolk, da un’antica e importante famiglia britannica. I suoi genitori si separarono quando lei aveva 7 anni e la causa legale per la custodia dei figli venne persa dalla madre. Nel 1975, in seguito alla morte del nonno Albert Spencer, Diana ricevette il titolo di Lady e suo padre, che nel frattempo si era risposato, ereditò quello di conte Spencer. Diana studiò fino a 16 anni nel Regno Unito, non superando gli esami per il college, e poi in Svizzera in una scuola femminile. Dopodiché si trasferì a Londra, in un appartamento con due coinquiline, iniziando a lavorare prima come baby sitter e poi in un asilo. Quando all’inizio degli anni Ottanta cominciarono i primi gossip su una sua frequentazione col principe Carlo, ad attirare l’attenzione dei media fu proprio questo elemento di normalità della sua vita: una ragazza di neanche 20anni che vive con le amiche a Londra e lavora in un asilo nido per mantenersi, in netto contrasto con le vite dei reali inglesi, percepite – per loro stessa volontà – come distanti e irraggiungibili.
C’è un momento di quel periodo che segna l’inizio della precoce fascinazione dei media per Diana, e ne spiega in parte i motivi. Nel 1980 un fotografo dell’Evening Standard andò all’asilo dove lavorava Diana e le scattò una serie di foto insieme ad alcuni bambini. Fino a quel momento i tabloid le avevano dedicato relativamente poco spazio, ribattezzandola “Shy Di” per l’espressione timida, con la testa incassata tra le spalle, quando veniva paparazzata; una foto di quelle scattate all’asilo nido però cambiò le cose: ritraeva Diana in una posa plastica, con il peso sulla gamba destra e una bambina in braccio. La luce alle sue spalle filtrava attraverso la gonna, evidenziando la silhouette delle gambe. Per qualche motivo la foto fu assai commentata sui giornali, e si dice che Carlo stesso ne rimase colpito. Tina Brown, giornalista e autrice dell’apprezzata biografia The Diana Chronicles, attribuisce l’impatto di quella foto all’innocenza che traspare dall’atteggiamento di Diana, che non sembrava consapevole della trasparenza della sua gonna. «L’immagine era, in un modo così ovvio e seducente, una dimostrazione di inesperienza» scrive Brown, che fa notare anche come la potenza della foto fosse dovuta a una combinazione di tratti che tradizionalmente richiamano la femminilità: «modestia, sensualità e affetto per i bambini».
Questo sex appeal disinvolto attribuito a Diana ne accompagnò la figura negli anni a venire, alimentato dalle copertine sui magazine, dagli outfit iconici (commentati nel dettaglio anche quando usciva in blue jeans) e dall’ossessione dei paparazzi. Una volta, nel 1982, Diana fu fotografata mentre era alle Bahamas in vacanza con Carlo, in bikini e incinta di William, il primogenito. Commentando la pubblicazione delle foto da parte dei giornali, la regina Elisabetta disse che quello era «il giorno più nero nella storia del giornalismo britannico» e convocò addirittura una riunione di emergenza a Buckingham Palace con alcuni capiredattori per chiedere che richiamassero i loro reporter e concedessero un po’ di privacy alla coppia. Ma l’aspetto fisico e gli abiti iconici non bastano a spiegare la longevità del mito di Diana. Un altro aspetto importante è la storia stessa della sua vita, che nella parte iniziale molti identificarono con una favola e nella parte finale con un’autentica – e prolungata – tragedia.
I matrimoni reali hanno sempre generato grande attenzione, anche nel passato. Fu così anche per il matrimonio di Elisabetta II con Filippo, duca di Edimburgo, ma era un’altra epoca, il 1947. Quando Diana e Carlo si sposarono era il 1981 e i mezzi di comunicazione di massa erano assai più diffusi: l’evento fu seguito da 750 milioni di persone in tutto il mondo, e raccontato dai media con entusiasmo e toni fiabeschi. A inizio agosto, qualche giorno dopo il matrimonio, la rivista Time scrisse: «Uno splendido principe, la sua bellissima principessa, la carrozza e la folla: la fantasia prende vita, un sogno che cavalca con andamento maestoso attraverso Londra. Solo che questo momento e quelli venuti prima e dopo sono reali, sotto lo sguardo di tutti». Quel momento di attenzione collettiva andò a rinforzare un interesse per Diana che era già nato ai tempi della frequentazione con Carlo e del fidanzamento, e che negli anni successivi non fece che aumentare.
Come ha osservato Stephen Bates, ex corrispondente del Guardian e autore del libro Royalty Inc., l’ingresso di Diana nella famiglia reale fu accolto come un’interessante novità, anche per la sua personalità percepita come più “terrena” per il semplice fatto che divideva l’appartamento con due ragazze e guidava da sola la sua auto. All’inizio, insomma, si pensava che Diana potesse essere un asset per la famiglia reale, perché l’avrebbe ravvivata e ringiovanita, resa più glamour. Come si sa, le cose andarono diversamente. Dopo alcuni anni di apparente armonia, cominciarono a trapelare le notizie sull’infelicità della coppia, sull’insoddisfazione di Carlo, sui disturbi alimentari di Diana e sull’ingombrante presenza di Camilla Parker-Bowles. Le voci su un tradimento di Carlo con Camilla, sua amica di lunga data, circolarono a lungo prima che venissero apertamente ammesse in una celebre intervista alla Bbc dalla stessa Diana. Ma i drammi non fecero altro che appassionare di più il pubblico e aizzare ancora di più i reporter.
Parallelamente, intanto, Diana coltivava la sua immagine, che riscuoteva sempre più successo, anche per come si comportava nelle occasioni pubbliche: a differenza degli altri membri della famiglia reale, più ingessati, Diana aveva una propensione a parlare direttamente con il pubblico, avvicinandosi e mischiandosi con la gente. Diana divenne presto insofferente alle innumerevoli tradizioni della famiglia reale, e soprattutto al fatto che le persone si dovessero annullare dietro al loro ruolo. Per lei un modo di evadere queste restrizioni erano i discorsi pubblici, per i quali era piuttosto portata. Nella biografia di Andrew Morton intitolata Diana. La vera storia dalle sue parole, il medico James Colthurst, amico personale di Diana, racconta: «I discorsi significavano molto per lei. Era un’area in cui si rese conto che poteva veicolare un proprio messaggio. Le dava un vero senso di emancipazione [empowerment, N.d.R.] e di realizzazione che un pubblico ascoltasse effettivamente ciò che aveva da dire, piuttosto che giudicare i suoi vestiti o la sua pettinatura. Era sempre molto eccitata se in tv e in radio ne avevano parlato, e felice se aveva ricevuto elogi o persino un ringraziamento per i suoi pensieri».
Al di là del complicato rapporto che Diana ebbe con la stampa scandalistica, tra lei e il pubblico ci fu innegabilmente una certa sintonia, che il primo ministro britannico Tony Blair, il giorno della morte, riassunse nella fortunata definizione di «principessa del popolo». È una sintonia che non s’incrinò nemmeno dopo il divorzio con Carlo, dato che il pubblico prese senza dubbio le sue parti, e che Diana alimentò in maniera apparentemente spontanea, attraverso gesti che rimasero nella memoria collettiva. È il caso, ad esempio, del viaggio che fece a New York da sola, nel 1989, quando era ancora sposata con Carlo. In quell’occasione visitò alcuni bambini affetti da Aids ricoverati in un ospedale di Harlem, e fu fotografata mentre abbracciava uno di loro. All’epoca si riteneva, erroneamente, che il virus dell’Hiv si trasmettesse con il semplice contatto e c’era un diffusissimo stigma nei confronti delle persone malate: il gesto di Diana fu quindi ritenuto di grande impatto e significativo, ed è stato poi trasposto nella serie di Netflix The Crown, in cui Diana è interpretata da Emma Corrin. Quella a New York non fu l’unica visita di cui diventarono celebri particolari momenti: ce ne fu almeno un’altra, nel 1997, pochi mesi prima che Diana morisse. Nell’ambito del suo impegno umanitario, andò in Angola insieme alla Croce Rossa britannica per sensibilizzare il pubblico sulla questione delle mine anti-uomo, incontrando persone e bambini mutilati e attraversando un campo minato, accompagnata da esperti sminatori. Il sentiero su cui camminò era sicuro, ma la foto di Diana vicino ai cartelli di segnalazione di pericolo è poi rimasta tra le tante diventate celebri.
Come in altri casi simili, è difficile dire se l’attenzione spasmodica dei media sia venuta prima o dopo quella del pubblico, e se sia stata in qualche occasione provocata da Diana stessa che, da una parte, soffriva terribilmente la mancanza di privacy ma, dall’altra, viveva anche del contatto con il suo pubblico. E quindi doveva intrattenere comunque rapporti con la stampa e, in qualche modo, governare questo rapporto. Andrew Morton, nella sua biografia che si scoprì poi essere basata su numerose interviste con Diana stessa, scrive che all’inizio Diana pensava «come molti altri nella famiglia reale» che la sua fama fosse un fatto transitorio, «che la sua stella sarebbe sparita presto dopo il matrimonio. Tutti, persino i giornalisti nelle redazioni, furono presi alla sprovvista dal fenomeno della principessa Diana: i loro lettori non ne avevano mai abbastanza». Il mito di Diana ha infine acquistato, se possibile, ancora più forza dopo la tragedia collettiva della morte. E certi aspetti della sua storia, come la questione del rinnovamento della famiglia reale britannica o i rapporti morbosi tra questa e i tabloid, continuano a riflettersi sul presente, per esempio sulle scelte dei figli. Probabilmente anche per questo, ma soprattutto per tutto il resto, sulla storia di Diana continuano a uscire tantissimi libri, biografie non autorizzate, serie tv e film.