di Francesco Gottardi (ilfoglio.it, 23 agosto 2022)
Da oltre trent’anni, oggi lui ne ha 60, Dennis Rodman è il più conclamato simbolo cestistico dell’eccesso. E ogni eccesso nasce da un preciso e personalissimo impulso morale: fregarsene. Sempre, di ciò che pensano gli altri. Da ragazzino ha iniziato a fregarsene del suo stesso fisico, perché i suoi 2,03 metri, a detta di tutti, erano decisamente troppo pochi per un’ala grande. Sarebbe diventato tra i difensori più forti della sua èra e il miglior rimbalzista di sempre – a detta di tutti: secondo lui invece, emerge in una recente intervista a GQ, «è una bella stronzata». Del suo corpo se n’è anche fregato bevendo a dismisura, sfiorando il suicidio. Per poi curarlo a modo suo: piercing, tatuaggi, capigliature di ogni colore fino a farne una tela vivente che oggi continua a infatuare donne e stilisti di mezzo mondo. Da giocatore Rodman se ne fregava perfino delle Nba Finals, sgusciando a Las Vegas o agli show di wrestling tra una gara e l’altra.
Anche se poi di titoli ne ha vinti comunque 5, di cui 3 consecutivi con i Chicago Bulls della leggenda, e dal 2011 fa parte della Basketball Hall of Fame. Da uomo se n’è fregato a più riprese della legge: a 18 anni finì brevemente in carcere per furto di orologi, è stato più volte arrestato per guida in stato di ebbrezza e violenza domestica, nel solo 2002 ha ricevuto una settantina di visite dalla polizia di Newport Beach, California, per il baccano delle feste nella sua villa. Anche se poi si è dimostrato campione di beneficenza e filantropia. Figurarsi allora il fregarsene della politica: supporter di Donald Trump, amico di Kim Jong-un. Presto in missione da Vladimir Putin. «Ho avuto il permesso di volare a Mosca in settimana», ha dichiarato a Nbc News, senza specificare da chi. «Voglio tentare di liberare Brittney Griner», la cestista americana prigioniera della Russia da 6 mesi e appena condannata a 9 anni per trasporto illegale di droga, o per rappresaglia. Senza un preambolo del genere, parrebbe un film. Ma è la cruda realtà di Dennis Rodman, incontrollabile come il suo soprannome – “The Worm”: pare che da bambino, giocando a flipper, si muovesse in uno strano modo disarticolato.
Coglierne il confine fra mito e mitomania non è semplice. E lui ci mette del suo. Sempre nella chiacchierata con GQ, l’ex giocatore ha spiegato quale sarebbe stato il suo più grande lascito ai posteri: non nell’ambito della pallacanestro, dove pure il suo straordinario approccio alla fase di non possesso ne ha rivoluzionato gli schemi, ma delle relazioni internazionali. Rodman, infatti, si attribuisce i meriti del rilascio di vari cittadini americani dai campi di prigionia nord-coreani. E soprattutto dello storico incontro fra Trump e Kim Jong-un nel 2018, quando i rapporti tra Stati Uniti e Corea del Nord erano più tesi che mai. Certo è che a Pyongyang ci era finito quasi per caso, cinque anni prima, secondo un fosco filo conduttore fra sport, mondanità e realpolitik. «Il miglior cestista del pianeta è Michael Jordan», dice dei suoi compagni di squadra, «il secondo è Scottie Pippen. E poi c’è il diavolo, che sono io». La famiglia Kim ha sempre avuto un debole per quei Bulls. «Volevano ospitare Mike o Scottie. Entrambi dissero no. Poi vennero da me. Accettai: che ne sapevo di quel che succedeva laggiù?».
Lo trattarono da re, lui ci si affezionò. Come gli capitava sul parquet: Rodman è sempre stato un fuoriclasse eccentrico ma altrettanto emotivo. Dava il meglio di sé con allenatori protettivi più che militareschi, da Phil Jackson a Chuck Daly «che considero uno dei miei quattro padri», twitta Dennis, abbandonato da quello naturale durante l’infanzia. È un controsenso soltanto apparente, il fregarsene del mondo esterno unito alla costante ricerca di un microclima di approvazione. Sia questo lo spogliatoio dei Bulls, la comunità drag degli anni Novanta, o un oligarca criminale. Meno di un anno fa, Rodman diceva che «Putin è davvero un figo: andai a trovarlo, aveva auto di lusso e le ragazze più belle che abbia mai visto». Compagni d’eccessi, insomma. Mister 11.954-rimbalzi-in-carriera (ma anche 212 falli tecnici, teste calde si nasce) sostiene di aver dormito «con oltre 2.000 donne: almeno 500 di loro non erano prostitute», tra cui Madonna, mentre il suo matrimonio più celebre fu con sé stesso, vestito da sposa. In quello stesso periodo posava nudo per la copertina della sua autobiografia, Bad as I wanna be. Stravolgeva i rapporti fra sportivi professionisti e mass media, chissà se fossero esistiti i social. Si faceva bastare film e pubblicità.
Un fenomeno di culto, passo dopo passo. Fino a The last dance, il documentario di Netflix sulla squadra più forte di sempre: a Rodman tutti riconoscono il ruolo più difficilmente replicabile dell’antica alchimia Bulls. Fino al caso Griner, nuova frontiera della diplomazia: un membro dell’amministrazione Biden ha spiegato che l’intervento di Rodman, e qualsiasi altro al di là dei negoziati ufficiali in corso, rischia di portare più danni che benefici. The Worm, ancora una volta, se ne frega. È una storia talmente assurda che potrebbe anche finire bene.