di Chiara Pizzimenti (vanityfair.it, 6 agosto 2022)
La questione non ha confine né latitudine. In campagna elettorale la musica è fondamentale: trascina. Gli esperti di politica e comunicazione lo sanno: un tormentone, una canzone impegnata, un classico, ognuna può far presa in maniera diversa e portare avanti i candidati. Solo che non sempre chi quelle canzoni le canta e le ha portate al successo è pronto e felice di vederle usare per scopi propagandisti. Ultimo caso La Rappresentante di Lista contro Matteo Salvini. L’oggetto del contendente è la canzone Ciao ciao, tormentone che viene dal Festival di Sanremo. Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina segnalano in un tweet: «Ci arriva voce che al comizio di S4lvini il dj abbia messo #ciaociao. La nostra maledizione sta per abbattersi su di te, becero abusatore di hit».
Salvini non ha tardato a replicare: «Cara Rappresentante, onestamente non ci ho fatto caso visto che ero in mezzo a tantissima bella gente. Sperando che la maledizione non abbia effetti, confesso (mea culpa) che la tua #ciaociao mi piace parecchio». La polemica fra cantanti e politici è il leitmotiv di questa campagna elettorale. Elodie è stata la prima: «Il programma di Giorgia Meloni mi fa paura». Poi è stato il momento del Giorgia contro Giorgia: «Anche io sono Giorgia, ma non rompo i c…oni a nessuno» ha postato la Giorgia cantante. Subito la frase che riporta al tormentone: «Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana» è diventata virale e la Giorgia politica ha risposto: «A differenza sua, se non mi piace come canta non la insulto».
Di battibecchi e canzoni sono piene le campagne elettorali. Despasito è stata negata a Nicolás Maduro in Venezuela qualche anno fa. «La mia musica è per tutti coloro che vogliono ascoltarla e divertirsi, non per essere usata come propaganda che cerca di manipolare la volontà di un popolo che grida per la sua libertà» ha detto Luis Fonsi, autore della hit. Le strofe, come in molti altri casi per Despacito, che significa lentamente, sono state cambiate, senza autorizzazione. Un conto però è la cover, un conto la propaganda politica. Il testo diventa così: «La Costituente va avanti. Ehi caro fratello a cui sto cantando, ho un grande messaggio per te: sei chiamato alla Costituente, che solo chiede di unire il Paese. Despacito, apri gli occhi e guarda la tua gente, tienigli la mano domani e sempre, che sono tutti fratelli quelli che ti stanno di fronte. Despacito, vai a votare».
Una canzone ben scelta può cambiare una campagna elettorale, ma non è detto che porti alla vittoria. Hillary Clinton ne è la prova. Le star della musica statunitense erano tutte con lei, ma alla Casa Bianca è arrivato Donald Trump, cui sono state negate decine di canzoni per la campagna elettorale: Aerosmith, Neil Young, Adele. I Rolling Stones gli hanno intimato più volte di non usare i loro pezzi. Alla fine gli è bastata, musicalmente parlando, la performance in Florida di tre ragazzine con costumi patriotticamente ispirati alla bandiera a stelle strisce. La canzone era Over there, remix di un canto patriottico di George M. Cohan utilizzato durante le due guerre mondiali. Alla cerimonia inaugurale poi ha avuto Jackie Evancho, sedicenne che ha cantato l’inno. Non Aretha Franklin e Beyoncé, come il predecessore Barack Obama.
Ci sono casi nel passato in cui la canzone ha funzionato meglio della campagna elettorale. Born free di Kid Rock era la colonna sonora del repubblicano Mitt Romney. Il politico non ha avuto successo, ma la canzone era virale nel 2012. Lo stesso politico è stato al centro di un caso che vedeva coinvolti Cindy Lauper e il Comitato Nazionale Democratico, che aveva usato True colors in uno spot per screditare l’avversario: «Mr. Romney può screditare sé stesso senza l’uso del mio lavoro». Ci sono canzoni che sono andate oltre la campagna. Don’t stop dei Fleetwood Mac era quella scelta da Bill Clinton per la sua prima campagna nel 1992 ed è stata usata per l’ex presidente ancora per eventi nel 2012. Esiste un caso Springsteen. Nel 1984 Ronald Reagan voleva Born in the Usa per la sua campagna. Dal Boss arrivò un netto no, perché non era un sostenitore del presidente repubblicano. Sì convinto, invece, a Obama. Bruce Springsteen era sul palco con il candidato democratico nella prima come nella seconda campagna. Ha suonato anche per Hillary, ma non con lo stesso successo.
In Italia si sono scelte strade diverse. Nessuna star per Silvio Berlusconi negli anni, ma lo storico Meno male che Silvio c’è ha fatto strada da solo anche a forza di battute e parodie. Il centrosinistra si è sempre affidato alla musica d’autore. Per Romano Prodi era La canzone popolare di Ivano Fossati, poi si è passati per Jovanotti, ma anche Rino Gaetano, Gianna Nannini e Neffa. C’è anche chi ha detto no. Dipende, infatti, sempre da chi vuole usare la tua canzone. Vasco Rossi ha risposto con la stessa canzone che Gianluigi Paragone voleva usare: C’è chi dice no, appunto.
Secondo Kathryn Cramer Brownell, docente di Storia alla Purdue University, riportata da Rolling Stone, la musica esercita da sempre un ruolo fondamentale all’interno del messaggio politico trasmesso nelle campagne elettorali. I candidati diventano come celebrità e approfittano dei canali dell’entertainment. Frank Sinatra adattava le sue canzoni per Jfk che ancora non era presidente degli Stati Uniti, Obama aveva la sua playlist. Nelle ultime primarie del Partito Democratico vinte da Joe Biden è stato chiesto in anticipo ai candidati di indicare la loro playlist. Le migliori sono risultate quelle coerenti con il messaggio politico di chi le aveva indicate. E certamente sono state quelle di maggior aiuto per le campagne elettorali.