di Arianna Francesca Brasca (huffingtonpost.it, 1° luglio 2022)
La legittimazione della guerra in Ucraina per il Cremlino non viene dalla politica, ma è il frutto di un lungo processo di sostituzione simbolica. Dalla semantica dello sviluppo e della vita, si fa strada quella della distruzione e della morte, la logica del camerata fatta Stato, o “necropolitica”, come sottolinea Svetlana Stephenson di Novaya Gazeta Europa, rifacendosi al filosofo Achille Mbembe. I primi anni dell’era Putin vedono la ripresa economica dal disastro del disfacimento dell’Urss, il fiorire della cultura e una garanzia di stabilità. Il clima inizia a cambiare con le proteste del 2011-13, che portano il nome di Rivoluzione Bianca, un evento sociopolitico nato durante le elezioni parlamentari del 2011, contro i presunti brogli elettorali e le irregolarità avvenute durante le votazioni e contro il futuro rieletto Putin.
Si consideri il discorso che lo Zar del Cremlino rivolge ai suoi sostenitori nel febbraio del 2012, quando cita la poesia Borodino di Lermontov: “Presso Mosca noi moriremo / Come morirono i nostri fratelli!”. Il topos della politica dell’uomo forte torna carsicamente a più riprese, ancora nel 2018, parlando della dottrina nucleare russa: “Noi, come martiri, andremo in paradiso, loro, invece, moriranno e basta”. Questo noi, pluralis maiestatis, è il sostrato di un sodalizio del governo con un popolo silenzioso, che non decide della propria vita e della propria morte. La narrativa pubblica del revanscismo delle figure dispotiche di Stalin e di Ivan il Terribile, che accompagna Putin nella campagna d’Ucraina, si unisce alla lotta contro le forze vitali della società russa, come la stampa libera e le organizzazioni non governative. Tutto questo, calato in un clima di guerra, porta alla ribalta il culto dei caduti. Nelle scuole di tutto il Paese sono tornati in auge rituali legati alla Grande Guerra patriottica, la nostra Seconda guerra mondiale, orchestrati da militari o funzionari della Chiesa ortodossa.
La vita e la morte al servizio del potere e della sovranità, dunque. Michel Foucault già parlava di biopolitica, intendendo un’implicazione diretta e immediata tra la dimensione della politica e quella della vita, intesa nella sua caratterizzazione strettamente biologica. L’agire politico si è sempre rapportato alla vita e, reciprocamente, la vita ha sempre costituito il quadro di riferimento delle dinamiche sociopolitiche. Se il dominio sovrano si esercitava prevalentemente nel prelievo delle risorse, di sangue, di sudditi sottoposti al diritto di vita e di morte, il biopotere della modernità si rivolge piuttosto a quei processi i quali attengono al prolungamento e al miglioramento delle condizioni di vita. Con lo Stato-nazione si rovescia quindi la vecchia simbologia del potere, legato al sangue e al diritto di morte, in una nuova, in cui il potere garantisce la vita. Conseguenza dell’irruzione del biopotere, in Occidente, è che la legge concede spazio alla norma: la struttura rigida della legge permette di minacciare la morte, ma la norma è più adatta a codificare la vita. Quello della biopolitica col Liberalismo è un matrimonio fondamentale per la riuscita del biopotere.
In Russia, dopo un fragile tentativo di transizione al Liberalismo, l’evoluzione alla necropolitica, portata dalla crisi ucraina, cambia radicalmente le priorità del potere nel determinare chi vive e chi muore. La necropolitica si nutre continuamente della mitologia del nemico, di stati d’emergenza e di nuovi conflitti. Le conquiste di questo rinnovato imperialismo moscovita si contano proprio sulle annessioni dei territori vicini e sulla repressione del popolo russo. Le autoproclamate repubbliche di Donetsk e Luhansk ne sono esempi evidenti. E non potrebbe essere altrimenti. Il sangue versato unisce passato, presente e futuro del discorso pubblico del Cremlino, con gli occhi puntati sulle nuove generazioni, che devono promettersi pronte a morire per il leader e la patria. L’invito a morire, avvolto nella retorica della grandezza della nazione, non lascia spazio all’immaginazione di sé, del proprio Paese, del mondo. Costruire una politica della vita e della cura deve passare per una riqualificazione culturale e civile, la scommessa più urgente perché il “mondo russo” sopravviva a sé stesso: il suddito deve imparare a riconoscersi cittadino, il soldato uomo.