(ilpost.it, 16 maggio 2022)
Il dibattito televisivo recente sull’invasione russa in Ucraina ha fatto emergere ancora una volta la scarsa abitudine del giornalismo italiano a preparare e realizzare interviste con contraddittorio: interviste cioè in cui l’intervistatore non si accontenta delle frasi di circostanza dell’intervistato, non sorvola su dichiarazioni false e approssimative e non permette all’interlocutore di sviare il discorso per non rispondere a una domanda puntuale; ma lo incalza, mettendone in evidenza tutte le incoerenze e cercando di ottenere le risposte richieste. È una mancanza che ha portato spesso a risultati assai discutibili, soprattutto di fronte a tesi basate su falsità, come quelle esposte nelle ultime settimane da personaggi dichiaratamente “filorussi” e membri del governo russo (com’è successo con l’intervista data dal ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov a Zona Bianca di Rete 4).
In Italia, in realtà, si fa molto ricorso alle interviste: sia sui giornali e sui siti di news on line (molto di più che in altri Paesi del mondo), sia nei programmi televisivi. Sono, però, perlopiù interviste che non prevedono un contraddittorio. Molte hanno l’obiettivo di intrattenere il pubblico, senza quindi puntare a dare “notizie” e svelare informazioni inedite; altre hanno l’ambizione di provare a spiegare meglio un fenomeno complesso, dando voce a una persona ritenuta esperta o autorevole in materia (anche se spesso non si fa ricorso a veri esperti, ma a opinionisti che si esprimono un po’ su tutto). A mancare quasi sempre è però l’intervista con contraddittorio, forse la più difficile e complicata da preparare e realizzare, soprattutto se avviene in diretta televisiva. Questa modalità richiede infatti una preparazione approfondita sugli argomenti trattati, una grande abilità nello scegliere tempi e modi di domande e interventi, nonché la disponibilità dell’intervistato a un reale confronto: condizione che negli anni, e soprattutto per le interviste ai politici, è diventata sempre più rara.
Preparare un’intervista televisiva, spiega un autore contattato dal Post che ha preferito rimanere anonimo, non significa solo conoscere in profondità l’intervistato e l’argomento di cui si occupa, ma anche saper prevedere come risponderà alle domande, magari prendendo in considerazione varie opzioni, e quindi collegare ogni possibile risposta alla domanda successiva. Durante la diretta, la persona che conduce è quasi sempre assistita da una rete di supporto formata da autori e redattori che comunicano con lei attraverso auricolari o con cartelli posizionati dietro le telecamere. Spetta anche a loro segnalare in “tempo reale” eventuali incongruenze dell’intervistato, o indirizzare le domande in una certa direzione. Bisogna quindi essere molto bravi, ed è una qualità assai rara: per molti giornalisti, anche i più abili ed esperti, è più facile spesso infilare una battuta a suggello della risposta ma molto più difficile staccare l’occhio dai fogli e afferrare e insistere sulle contraddizioni o le mancanze in quel che dice l’intervistato. È un limite che c’entra anche con un’educazione al confronto dialettico, che in Italia è povera e che invece nei Paesi angloamericani è molto più presente dalla formazione scolastica fino al dibattito nelle istituzioni pubbliche.
Barbara Serra, giornalista e conduttrice italiana ma di formazione britannica, con esperienze nelle redazioni di Bbc, Sky News e Al Jazeera English, ha raccontato di un’ulteriore difficoltà nel condurre un’intervista con contraddittorio nel caso in cui l’intervistato sia straniero e il tema non sia la politica interna italiana: «Quando mi trovavo a intervistare un personaggio di un Paese straniero, chiedevo che il nostro corrispondente da quel Paese fosse collegato alla regia, e con me direttamente nell’auricolare, per usare la sua conoscenza profonda. Nelle redazioni televisive italiane il focus è sempre stato sulla politica interna; è possibile che le competenze per conoscere a fondo i temi internazionali e contraddire un ospite straniero a volte non ci siano». Serra ha parlato, inoltre, di quanto sia difficile fare un’intervista con una traduzione di mezzo: «Incalzare risulta impossibile senza sovrapporsi all’interprete, le sfumature e il peso delle parole si perdono».
L’immediatezza e l’impossibilità di verifica e revisione a posteriori rende le interviste televisive molto più complesse rispetto a quelle in forma scritta. È anche per questo che le interviste con contraddittorio davvero riuscite vengono considerate quasi eccezionali, spesso diventano memorabili e sono citate e riviste anche a distanza di anni. Il caso forse più emblematico è quello della serie di colloqui che, nel 1977, vide il conduttore britannico David Frost confrontarsi con l’ex presidente americano Richard Nixon. Frost conduceva vari programmi nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Si era costruito una fama di ottimo intervistatore grazie a «un atteggiamento molto deciso, una grande fiducia in sé stesso e una meticolosa preparazione», ha scritto il Guardian. Nixon decise di concedergli l’intervista nella speranza di poter riabilitare la propria immagine dopo lo scandalo Watergate, iniziato a seguito di un’inchiesta che aveva svelato un sistema di attività illegali di controllo e spionaggio attuate proprio dalla sua amministrazione allo scopo di mantenere il potere, e che aveva portato alle sue dimissioni. Il lungo confronto fra il giornalista e l’ex presidente durò quattro settimane, con 29 ore di “girato” ridotte a 6 in montaggio. E, nonostante un’iniziale difesa a oltranza del proprio operato, Nixon, incalzato da Frost, finì con l’ammettere le proprie colpe. Le interviste ottennero un enorme successo di pubblico e ispirarono in seguito uno spettacolo teatrale e un film: il primo, Frost/Nixon, scritto nel 2006 dal drammaturgo e sceneggiatore Peter Morgan; il secondo, Frost/Nixon – Il duello, diretto da Ron Howard e candidato a 5 premi Oscar nel 2009.
In Italia sono considerate un esempio di “interviste con contraddittorio” alcune delle puntate del programma Rai La notte della Repubblica di Sergio Zavoli, andate in onda a cavallo fra il 1989 e il 1990. Lo stile di Zavoli emerse per esempio in maniera molto chiara nell’intervista a Mario Moretti, uno dei componenti del nucleo storico delle Brigate Rosse. Nel video, l’inquadratura rimase fissa sull’intervistato, ripreso su un campo nero, mentre Zavoli, la cui presenza si manifestava solo attraverso la voce, incalzava, contraddiceva, smontava cliché e risposte ideologicamente preconfezionate di Moretti, sempre mantenendo toni pacati ma risoluti, e portando discussione e analisi a un livello più profondo, grazie anche alla disponibilità dell’intervistato a confrontarsi su convinzioni e accadimenti.
Il genere dell’intervista con contraddittorio, comunque, non appartiene solo alla storia della televisione del passato, ma ha esempi recenti e contemporanei, anche se poco frequenti nei programmi italiani. Le nostre reti ospitano un numero considerevole di talk show, che hanno un bisogno costante e cospicuo di ospiti. Un’esigenza che ha talvolta creato naturali dinamiche di buoni rapporti e collaborazione fra gli intervistati e la trasmissione, obbligata a garantirsi presenze anche ricorrenti, con conseguente aumento nel corso degli anni del “potere contrattuale” del mondo politico. Esponenti dei partiti e del governo hanno potuto chiedere condizioni sempre più stringenti alla loro presenza in studio. Pur di venire incontro all’ospite, alcune trasmissioni (eccezioni nel panorama complessivo, secondo gli autori sentiti dal Post) sono talvolta pronte a concordare domande, e non solo temi. Proprio questa disponibilità potrebbe essere stata tra i motivi che hanno spinto il ministro degli Esteri russo Lavrov a concedere la sua prima intervista internazionale dall’inizio della guerra con l’Ucraina a una televisione italiana.
In tal senso in molti hanno fatto notare la grande distanza fra l’intervista di Zona Bianca e quella della giornalista della Cnn Christiane Amanpour a Dmitry Peskov, portavoce di Vladimir Putin, andata in onda circa un mese prima. Nei 28 minuti di colloquio, Amanpour ha ribattuto ogni volta alle falsità pronunciate da Peskov e ha sostenuto le sue obiezioni con argomenti solidi. Tra le altre cose, ha detto: «È una guerra, è un’invasione, nonostante quello che raccontate al vostro popolo»; e ha fatto domande con l’obiettivo di smontare la versione ufficiale russa, per esempio: «Qual è l’obiettivo strategico di far saltare in aria palazzi abitati da civili? Perché gli sfollati ucraini scappano a Ovest se si sentono così sicuri con voi?», riferendosi ai moltissimi civili che stanno lasciando il Donbass per scappare dai bombardamenti e da una possibile occupazione russa. In questa e in altre interviste con contraddittorio è stata fondamentale la puntualità delle “seconde domande”, definite nel mondo anglosassone follow-up question, poste allo scopo di ribadire una questione elusa, chiedere un chiarimento, approfondire un concetto che l’intervistato ha solo abbozzato o si è lasciato quasi inconsapevolmente sfuggire. Presuppongono la capacità da parte del giornalista di andare oltre la scaletta, di non farsi distrarre dagli appunti e dalla necessità di pensare a che domanda fare dopo.
Daria Bignardi, curatrice e conduttrice per molti anni di format televisivi basati su interviste (Le invasioni barbariche, L’era glaciale, L’assedio: quindi programmi per lo più con l’obiettivo di intrattenere, non di intervistare con contraddittorio), ha spiegato il lavoro preparatorio che il conduttore o la conduttrice devono fare prima dell’intervista: «Prima di tutto bisogna saperne il più possibile di quell’ospite, di quello che ha fatto, detto, scritto. È un po’ come preparare un esame universitario, o almeno un compito in classe. Io mi scrivevo le domande, una trentina, o anche di più. Magari poi quando mi vedevo l’ospite davanti me ne venivano delle altre. Mi è capitato spesso di non guardare neanche il copione. […] In generale, comunque, se ti accorgi che l’intervistato dice una bugia gli dici “A me invece risulta che…”. Se ne hai il sospetto ma non puoi verificarlo gli dici la verità: “Questa cosa non mi suona. È sicuro?”. Se elude, ripeti la domanda».
Un esempio recente e molto noto del potere delle “seconde domande” si vide nell’intervista che Jonathan Swan di Axios fece nell’agosto del 2020 all’allora presidente americano Donald Trump: un «disastro» per l’intervistato, a detta dei commentatori. Swan approfondì temi e numeri della pandemia da Coronavirus col presidente Trump, che, inizialmente, si rifugiò dietro a dati falsi e risposte di facciata, poi andò in evidente difficoltà di fronte alle obiezioni circostanziate del giornalista. Trump sostenne, ad esempio, che la pandemia negli Stati Uniti fosse sotto controllo. «Com’è possibile?», chiese Swan: «Mille americani al giorno stanno morendo». «È vero, stanno morendo. È così e basta», rispose Trump.
La capacità di tenere l’intervistato sulla questione che si vuole approfondire trova un’espressione chiara in un passaggio della lunga intervista che il giornalista catalano Jordi Évole fece nel 2017 a Carles Puigdemont, allora presidente indipendentista della Catalogna che aveva da poco fatto approvare al Parlamento (anch’esso indipendentista) una legge che istituiva un referendum per decidere sulla secessione della Catalogna dalla Spagna (il referendum poi si tenne, anche se fu considerato illegale dallo Stato spagnolo). Per oltre 3 minuti Évole, contrario all’indipendenza ma più di altri giornalisti disposto a discutere della questione del referendum, incalzò Puigdemont sull’opportunità di approvare una legge di tale importanza con la sola maggioranza semplice, invece che con una maggioranza qualificata (quindi ben superiore al 50%). Évole insistette molto su questo punto: fece notare, ad esempio, a Puigdemont che perfino per eleggere la dirigenza della televisione catalana serviva una maggioranza qualificata (90 voti su 135 membri del Parlamento): com’era possibile, chiese, che per decidere della secessione della Catalogna bastasse una maggioranza semplice (i voti a favore erano stati 72)? Puigdemont ribatté che quella della maggioranza semplice era l’unica via possibile, visto che il governo spagnolo non era disposto a dare la possibilità alla Catalogna di tenere un referendum legale sull’indipendenza. Évole rimase ancora sul punto, sostenendo che non era vero che fosse l’unica via: «Si potevano convocare elezioni straordinarie e, se davvero il popolo catalano avesse voluto seguire questa strada, vi avrebbe dato una maggioranza più ampia». Dopo quell’intervista Évole fu duramente attaccato dal fronte indipendentista catalano, che lo accusò di avere indebolito la causa dell’indipendentismo.
Il caso di Évole, insieme ad altri simili, è interessante perché solleva un ulteriore problema per chi vuole condurre interviste con contraddittorio: costruirsi una fama di intervistatore o intervistatrice capace di reggere e imporre un contraddittorio può “spaventare” futuri potenziali intervistati. In contesti dove la pratica è abituale, come il mondo anglosassone, alcuni giornalisti, come Jeremy Paxman nel Regno Unito o Kara Swisher negli Stati Uniti (e, in particolare, nel contesto delle aziende tecnologiche della Silicon Valley), hanno costruito la loro personale reputazione e carriera grazie anche allo stile aggressivo. Ma in altri, dove è più comune trovare interlocutori compiacenti, gli ospiti hanno un’ampia possibilità di scelta: possono decidere senza grossi problemi di evitare alcune interviste, considerate rischiose, e sceglierne altre, dove l’intervistatore o l’intervistatrice promettono un atteggiamento compiacente.
Il giornalista televisivo italiano che più incalza gli ospiti è probabilmente Giovanni Floris, conduttore di Dimartedì su La 7, che, nel corso del tempo, ha adottato uno stile non aggressivo ma puntuale, con un frequente ricorso all’ironia. Negli anni Floris è stato protagonista di ripetuti scambi animati con Matteo Renzi, che, nel 2018, lo accusò in diretta, in parte scherzando e in parte no, di “avercela con lui”. Floris, durante la pandemia, si scontrò anche con Matteo Salvini, in un dialogo diventato celebre e poi trasformatosi in vari meme sui social, riguardo l’opportunità di abbassarsi la mascherina in mezzo alla gente. Gli stessi leader sono tornati in seguito a Dimartedì, ma non sempre va così.
Barbara Serra ha detto: «Nel Regno Unito c’è l’OfCom, che regola le trasmissioni televisive e impone loro di essere imparziali. In Italia l’ospite sa sempre dove sta andando, di che orientamento politico è il programma e che genere di domande aspettarsi. Per cui è normale che scelga o rinunci». In Italia l’abbondanza di “palcoscenici” permette, quindi, ai politici di selezionare le trasmissioni riuscendo comunque ad arrivare a un pubblico ampio: esistono talk show sufficienti per essere potenzialmente in diretta dalla mattina alla sera; senza contare le pagine personali sui social network, che permettono agli esponenti più seguiti di bypassare la mediazione giornalistica. Per le trasmissioni fare domande poco accondiscendenti o segnalare incongruenze con dichiarazioni o azioni del passato significa, in altre parole, correre il rischio di non avere più quel politico o quella parte politica fra gli ospiti nelle settimane o nei mesi successivi.