di Sebastiano Pucciarelli / Tv Talk (huffingtonpost.it, 15 febbraio 2022)
Il Super Bowl è il grande paradosso dello spettacolo occidentale: la finale del campionato di football americano è l’evento televisivo più visto in assoluto, ma da decenni viene seguito più per le esibizioni musicali (e le pubblicità prodotte ad hoc) che per la partita. La voglia e la pazzia di snobbare il piatto principale per abbuffarsi di stuzzichini. Parliamo di un grande buffet per telespettatori, sempre intorno ai 100 milioni (da noi 336.000 nottambuli per un 6.9% di share su Rai 1, imprecisati su Dazn), e una pacchia per gli sponsor, che quest’anno pagavano 30 secondi di pubblicità anche 7 milioni di dollari. Il concerto nell’intervallo ne è costati tra i 15 e i 17. Biglietti a 3mila dollari e stadio finalmente pieno dopo la capienza più che dimezzata nel 2021, causa pandemia.
Del resto il football americano è uno sport iper-televisivo “per regolamento”. L’azione è così rapida e frammentata che il gioco si interrompe continuamente: una manna per la tv che può trasmettere spettacolari replay rallentati, da decine di angolazioni, e succosi audio dei discorsi tra allenatori e giocatori. Non a caso è stato il primo sport a introdurre una forma di var, già nel 1986; il sistema attuale risale al 1999, vent’anni prima del calcio – tanto per restare agli sport dalle uova d’oro. Della partita non so dirvi granché, pur avendo visto una sintesi dettagliata: un amico allenatore mi parla di match godibile ma non epocale, vinto dai Los Angeles Rams grazie alla difesa. Lo testimonia anche il punteggio finale di 23-20, una sorta di 2-1 calcistico (anche questa è dell’amico coach, prendetevela con lui se il parallelo non vi convince).
E Los Angeles ha vinto anche nelle performance musicali dell’intervallo, quel famoso halftime show che da decenni regala il quarto d’ora di maggior ascolto stagionale al network che lo trasmette – e performance leggendarie alle icone che vi cantano, gente come Michael Jackson, Beyoncé, Springsteen, gli U2… Da anni a Tv Talk ci chiediamo: è il loro Festival di Sanremo? Sì e no, di certo ha più soldi ma li concentra in una manciata di minuti. Ahi, lasso me, che ancora accuso le 25 ore di Teatro Ariston in 5 giorni. Ma, per dire, alla vigilia dello show un veterano come Eminem aveva confessato di essere nervoso – citofonare Morandi o Ranieri – perché “non c’è nulla di più definitivo della diretta tv” e di un palco sotto gli occhi di tutti: “se fai una ca**ata, la tua ca**ata rimarrà per sempre”.
La musica nell’intervallo del 56° Super Bowl era molto attesa, anche perché sarebbe stata la prima volta del rap come unico protagonista della scena. In precedenza, nel 2011, ci si erano avvicinati i Black Eyed Peas, che in verità il rap lo mescolano con forti dosi di pop-dance (e si fecero accompagnare dalla chitarra rock di Slash e dalla voce soul di Usher), ma il risultato fu piuttosto deludente. Questa volta invece rap-rap, per un medley concepito come la celebrazione di trent’anni di dominazione delle classifiche: anzitutto la scena californiana, col suo padre-produttore Dr. Dre, cresciuto a pochi chilometri da quello stadio, e i suoi figli artistici Snoop Dogg e Kendrick Lamar. Ma anche i newyorkesi Mary J. Blige (regina dell’R&B) e il redivivo 50 Cent, che compare a sorpresa per cantare la sua hit In da club appeso a testa in giù. In mezzo a quest’alleanza tra le due Coste, Eminem da Detroit, unico bianco ma anch’egli figlioccio di Dre.
Ognuno col suo brano prodotto dal Dottore, ognuno in fondo perso nel suo ventennale cavallo di battaglia – cfr. Cremonini, sempre più sosia di Eminem, con 50 Special quest’anno all’Ariston. Per inciso, il Cesare nazionale ha dimostrato che sì, talvolta Sanremo può essere il nostro Super Bowl, se si confeziona uno spettacolo tele-musicale ad hoc per l’evento: compatto, efficace, ritmato. Ma tornando alla West Cost americana, a produrre lo show televisivo dell’intervallo c’era l’altro cinquantenne d’oro della scena hip hop, Jay-Z da New York. Pace fatta tra le due Coste della musica e dello show-biz. Insomma, ogni casella al suo posto, per celebrare la definitiva uscita dal ghetto e la raggiunta “presentabilità televisiva” degli ex-ragazzacci del rap.
Consacrazione tardiva, notano giustamente alcuni, per una musica che domina le classifiche statunitensi da oltre un ventennio. E infatti è stato lo show dei cinquantenni: tra i magnifici cinque sul palco, l’unico trentenne è Kendrick Lamar, Premio Pulitzer per la musica nel 2018. Del resto il Super Bowl è la finalissima di uno sport molto bianco e decisamente tradizionalista, con una federazione che solo sei anni fa sconfessava e “licenziava” il campione Colin Kaepernick per essersi inginocchiato durante l’esecuzione dell’inno nazionale, nel gesto di protesta anti-razzista poi emulato dagli sportivi di mezzo mondo. E visto che sempre più artisti boicottavano la manifestazione, in solidarietà con Kaepernick, ecco che nel 2019 la Nfl chiama il mega-consulente Jay-Z, con la sua agenzia Roc Nation, a ricomporre i cocci dell’inclusività e della diversità. Da allora, tutti e tre gli show prodotti hanno visto protagoniste le minoranze etniche (Shakira e Jennifer Lopez nel 2020, The Weeknd nel 2021).
Serve anche questa consapevolezza della “variabile senso di colpa e riparazione”, più che mai intrecciata alle esigenze commerciali, per giudicare la qualità dello show più statunitense che c’è. Negli anni scorsi quei set allestiti a tutta velocità puntavano sull’effetto-kolossal, con scenografie faraoniche e coreografie di massa che manco un’inaugurazione olimpica o una parata nordcoreana. Stavolta Jay-Z ha fatto costruire per Dr. Dre una strada come quelle della sua Compton, sobborgo nero culla del gangsta rap: un pavimento che ne riprende il tracciato urbano, cinque casette bianche e tre decappottabili d’epoca parcheggiate che i fantastici cinque attraversano cantando, dal tetto alla sala da pranzo, dallo studio di registrazione alle auto sul viale. Una sorta di Dogville del rap, un quartiere in miniatura per un block party con dj set, MC e ballerini. Il risultato? Un autentico musical di strada, una West Side Story della cultura hip-hop e della parabola di Dr. Dre.
Ma visto che parliamo di cultura black, figlia dell’emarginazione e della violenza razziale, le aspettative erano forti anche per gli eventuali messaggi lanciati dal palco. Peraltro, negli Stati Uniti sono i giorni del Black History Month, il mese della Storia dei neri. Quel set immacolato, teatrale, e quel medley vintage parlano chiaro: si è scelta la strada della sublimazione nostalgica, più che della rivendicazione. Zero slogan, se non quelli contenuti nelle canzoni, come “still not loving the police” cantato da Dre con ballerini in divisa carceraria. E zero gesti politici, se non quell’unico, potente inginocchiarsi di Eminem alla fine di Lose Yourself – pare che l’Nfl non fosse d’accordo, ma lui è andato dritto. Nessuno si è snaturato, ma nessuno ha cercato di sensibilizzare o provocare a tutti i costi (anche qui una piccola lezione per i Sanremo a venire). Insomma, il Black Lives Matter è stato più incarnato che declamato. Di certo trasformato in grande intrattenimento generalista, nella tradizione del Super Bowl, del suo pubblico, dei suoi sponsor… E, in definitiva, dello spettacolo statunitense di ogni epoca. “Keep it rapping, keep it rapping”, per parafrasare il defunto Tupac Shakur, riportato su quel palco dal socio di allora Dre, nella loro California Love.
P.S.: E sul fronte spot? Anche quest’anno erano concepiti come mini-blockbuster e zeppi di star – da Schwarzenegger a Salma Hayek, da Ewan McGregor a Scarlett Johansson, da Jim Carrey a Zendaya – per promuovere tante auto elettriche, tanto cibo spazzatura, qualche film in uscita e alcuni colossi dei viaggi on line, in un auspicio di ritorno alla normalità dei consumi. Ma anche, per la prima volta, le criptovalute, che offrono il miglior spot dell’edizione: il comico Larry David a spasso nel tempo, di secolo in secolo, scettico su ogni innovazione tecnologica, dalla ruota, alla forchetta, al wc… fino appunto alle criptovalute. Messaggio finale: “Don’t be like Larry. Don’t miss out on the next big thing”. Se volete recuperarne un paio, consiglio anche il trailer stesso dell’halftime: un action movie di tre minuti, sponsorizzato dalla nota bevanda gassata con un budget vicino al bilancio di uno Stato africano – e di dieci film italiani.