di Antonio Gurrado (ilfoglio.it, 4 febbraio 2022)
Eppure non sorrideva, Sergio Mattarella, mentre i grandi elettori costellavano di applausi il suo discorso di reinsediamento. Un inquietante grafico sul Corriere della Sera di oggi mostra la progressione del battimani nel giro di mezzo secolo: solo sei applausi per Pertini nel 1978, nove per Cossiga sette anni dopo, già quattordici per Scalfaro e diciannove per Ciampi fino a che, nel 2006, la degenerazione si fa evidente: ventinove al primo Napolitano e trentadue al secondo, quaranta a Mattarella sette anni fa e adesso cinquantacinque al bis. Se un politico del ’78 si fosse teletrasportato in Parlamento ieri, ne avrebbe concluso che a Montecitorio c’erano i Bee Gees.
Vuol dire che gli attori stessi della politica favoriscono un’interpretazione spettacolare degli eventi istituzionali, che passa attraverso una reazione popolare di radice emotiva e potenzialmente sguaiata. Ma significa anche che andiamo verso un futuro in cui al prossimo presidente della Repubblica (probabilmente di nuovo Mattarella) la tendenza statistica accorderà cento applausi, e poi duecento, mille forse, culminando in un futuro prossimo in cui al presidente della Repubblica non sarà possibile dire una parola senza che per le ovazioni vengano giù gli spalti. Provate magari a invitare un amico, un vicino o un vecchio zio a cena e iniziate a dargli ragione a ogni frase, a sottolineare con ampi gesti di approvazione ciascuna parola, a lodarne profondità e perspicacia, balzando in piedi travolti dall’entusiasmo quando vi chiede di passargli il sale. Poi ditemi se sorride.