di Giulio Zoppello (esquire.com, 17 gennaio 2022)
Lewis Hamilton e Lebron James che si schierano per il Black Lives Matter, Serena Williams che si mobilita per i diritti delle donne delle minoranze, Eric Cantona che senza mezzi termini condanna i mondiali di calcio in Qatar. Ci sarebbero anche altri esempi da portare, ma tutti hanno una cosa in comune: la loro voce si leva oggi perché, per primo, a farlo in quanto star dello sport conscia della propria responsabilità, lo fece un ragazzo nato a Louisville, Kentucky, il 17 dicembre di ottant’anni fa. Venne registrato all’anagrafe dal padre pittore come Cassius Marcellus Clay, ma sarebbe diventato tra i personaggi più iconici della storia del XX secolo con il nome che lui stesso si scelse: Muhammad Ali.
Negli annali della boxe vi è qualche pugile che lo precede per ciò che riguarda la caratura tecnica o i successi, ma per quello che riguarda la grandezza non vi è semplicemente partita. Ma chi era veramente Muhammad Ali? La risposta è molto semplice e molto complessa assieme, deve comprendere il personaggio e l’uomo, che era fatto di contraddizioni, anche violente, e di difetti. Ma è fuori di dubbio che con lui si è avuto anche il primo influencer della storia e il primo leader politico che non era un politico, almeno non ufficialmente. Muhammad Ali era cresciuto nell’America della segregazione razziale. Non aveva sofferto la fame o la povertà come alcuni degli avversari con cui si sarebbe misurato sul ring in match poi diventati leggenda. Era figlio di quella che potremmo definire la classe media afroamericana dell’epoca, ma forse proprio per questo ebbe la possibilità di comprendere meglio la natura della discriminazione, trovandosi bene o male più a contatto con i bianchi, nonché con un ambiente anche culturalmente più stimolante. Al pugilato si avvicinò per difendersi dai bulli, lo abbracciò in modo totalizzante, riportando in patria da Roma un oro olimpico che gli aprì la strada di una notorietà che non pareva però aver nulla di rivoluzionario. Certo, già sul ring era diverso da ogni peso massimo che si fosse visto fino ad allora.
Diventò Campione strappando la corona in due match discussi al truce Sonny Liston, il nero erculeo e inquietante che tutti temevano e odiavano. Liston era il simbolo dei neri sfruttati dai bianchi, della boxe scolastica, brutale e accademica. Ali era il contrario, era irriverenza dentro il ring prima che fuori, con quelle braccia basse, il trash talking, le gambe da levriero, la genialità tattica e tecnica animata da un senso dell’anticipo sovrumano. A conti fatti, anticipò ciò che Bruce Lee sarebbe stato per le arti marziali: un rivoluzionario radicale. Prima di lui non si era mai visto uno sportivo in grado di avere un impatto così incredibile sull’opinione pubblica, di cercarlo, di crearlo, di ottenerlo, grazie a un’incredibile capacità di penetrazione psicologica e un’oratoria sensazionale. In lui la vocazione all’impegno politico si fortificò anche per la volontà di non essere un pugile nero come erano stati gli altri, truffati, sfruttati, morti in disgrazia, di essere padrone del proprio destino. Malcolm X, di cui fu allievo, e per molto tempo amico, lo guidò nelle braccia di quella Nazione dell’Islam che rispondeva al suo bisogno di un’indipendenza totalizzante, di un’identità ex novo. Cassius Clay scomparve per lasciare il posto a Muhammad Ali.
Gli afroamericani avevano già avuto idoli sportivi che, volenti o nolenti, erano diventati un traghetto verso il mondo dei bianchi. Uomini come Joe Louis, Jackie Robinson o Jesse Owens. Ma ad Ali, ai Black Muslims, non interessava armonizzarsi con i bianchi, quanto piuttosto rivendicare con forza la propria identità, l’orgoglio di essere neri, di poter fare ciò che si voleva, quando lo si voleva. Ali stimava invece Jack Johnson, primo campione dei pesi massimi nero, perseguitato per aver voluto essere libero. Per Muhammad, differenziarsi dagli altri idoli afroamericani che lo avevano preceduto, andava di pari passo con una radicalizzazione dei toni, un’aggressività mitigata dal suo humor, dal suo saper giocare con le telecamere e i media. Ammirava come pugile Floyd Patterson, che aveva marciato al fianco di Martin Luther King, ma il suo aver cercato in qualche modo di rassicurare i bianchi era qualcosa per cui Ali lo attaccò prima fuori che dentro il ring.
Senza ombra di dubbio Muhammad fu uno dei simboli di quella contestazione che avrebbe avuto nel suo forzato esilio dalla boxe, nel suo rifiuto di andare in Vietnam, ancora oggi uno dei momenti più potenti, più pregni di significato. “Nessun viet-cong mi ha mai chiamato negro” è una delle frasi politiche più note ed eloquenti che si ricordano, diventò una parola d’ordine, quasi uno spot elettorale a ben pensarci. Il processo che infine lo vide vittorioso, oltre a riportarlo sul ring per scrivere altre pagine leggendarie, lo fece diventare de facto il simbolo più forte della politica progressista statunitense. La contraddizione risiedeva nel fatto che, bene o male, continuava ad essere un pugile, anzi il pugile, e assieme un protagonista politico al quale erano concesse libertà mediatiche assolutamente senza pari. Ancora oggi qualcuno ipotizza che se si fosse candidato alla presidenza degli Stati Uniti avrebbe vinto a mani basse.
Il Campione della gente, degli ultimi, il simbolo del Terzo Mondo. Muhammad Ali è stato tutto questo. Ma è stato anche i suoi errori, le sue contraddizioni. Nel momento di massima vulnerabilità abbandonò l’ex amico e mentore Malcolm X, che di lì a poco fu assassinato. Nel loro ultimo incontro a La Mecca, lo trattò in modo sprezzante, crudele, qualcosa che avrebbe rimpianto per tutta la vita. Allo stesso modo, avrebbe rimpianto gli insulti e la mancanza di riconoscenza verso l’amico, poi rivale, poi nemico, Joe Frazier, l’uomo che lo aveva sostenuto finanziariamente, contribuendo a riportarlo sul ring nel famoso “Match del Secolo”. Chiamarlo “Zio Tom” senza motivo, farlo diventare bene o male beniamino di quell’America bianca, conservatrice e razzista che lo detestava, fu grave quasi quanto utilizzare la motivazione politica per rendere più attraente ogni suo match, anche quando non pertinente. Con le donne Muhammad Ali fu sovente possessivo, maschilista, ne collezionò a decine per alimentare il proprio narcisismo, il suo sentirsi qualcosa di più di un uomo come gli altri.
Eppure tutto questo non può che essere perdonato, alla luce di quante migliaia di ragazzi salvò, facendogli comprendere che non andare in Vietnam era l’unica cosa giusta da fare, dando speranza a milioni di africani, asiatici, oppressi e impoveriti. Nella storia pochissime icone sportive possono essergli paragonate. I nomi sono quelli di Michael Jordan, Pelé, Maradona, Federer o Bolt. Qualcuno forse ha avuto un impatto sulla singola disciplina anche più grande di lui, ma nessuno è riuscito ad andare oltre, a diventare un ponte verso un qualcosa di diverso che mai si sarebbe pensato possibile. Ad oggi, ogni tentativo di essere suo seguace appare sterile, quasi ridondante, impallidisce rispetto al suo ricordo, al terremoto che lui rappresentò. Non fosse altro per l’impossibilità di avere una folla attorno a gridare “Bumaye!” nel caldo di Kinshasa, o a commuoversi anche solo per averlo visto accendere una torcia olimpica, pur tremante per il Parkinson che ormai lo divorava. In una società come quella americana, connaturata da una diseguaglianza sociale e materiale connessa al colore della pelle, Muhammad Ali è stato un esempio da seguire, un simbolo del fatto che non bisogna accettare la vita ma che la si può cambiare.
Mike Tyson, per esempio, lo ha sempre indicato come il motivo per cui non restò un criminale: gli bastò trovarselo di fronte nel carcere minorile, quando il Più Grande andava a visitare ragazzini destinati ad essere futuri scarti della società, per dirgli che c’è sempre una scelta. La verità è che, più che cambiare lo sport, Muhammad Ali ha cambiato il modo in cui noi vediamo lo sport, in cui lo sentiamo, in cui lo concepiamo. Non è più stato qualcosa di inerte nella nostra narrazione, ma parte di un flusso continuo di coscienza, di una possibile azione con cui creare una rottura, risvegliare coscienze e idee. Peccato che però, forse, oggi non crediamo più in tutto questo, non possiamo credere in un altro Ali. Non nell’era postmoderna, in un mondo dove non esistono ideali anche perché, oggi, per essere divi dello sport è importante soprattutto essere un prodotto, seguire le regole stabilite da altri. E questo lui proprio non lo sapeva fare, piuttosto le rompeva, per creare le sue regole, quelle con cui ha saputo cambiare la vita anche di chi è venuto dopo il suo regno.