di Guia Soncini (linkiesta.it, 27 ottobre 2021)
La prima volta che il nuovo mondo mi fece impressione, fu sull’Instagram di Chiara Ferragni (la cui centralità in questo secolo è paragonabile a quella che aveva Avignone nel Trecento). Era la primavera del 2020, eravamo tutti chiusi in casa ad annoiarci, Chiara più di noi, e soprattutto più provata nel suo ruolo di Giorgio Mastrota del glamour: se non si esce non si vendono vestiti da sera, se si sta tutti in tinello perché mai uno stilista dovrebbe piazzare una borsetta al braccio della Ferragni. A quel punto Chiara ci aveva già traumatizzate dirottando la propria economia del sé su casalinghi e carboidrati (la volta in cui si fece riprendere mentre fingeva di pulire la doccia fu per me più sconvolgente di quella in cui fingeva di cucinare), ma non fu quello a cambiare il mondo.
Fu la sera in cui, tra un guardate-che-carino-mio-figlio e un guardate-che-appetitosi-questi-surgelati, arrivò un “Black Lives Matter”. Fu allora che il mondo si divise in due, di fronte alla scoperta che l’Inglese richiede il Francese: che per fare engagement pronunciato all’Inglese, cioè per avvincerci alla tua pagina social, devi metterci l’engagement franzoso, cioè l’impegno per le buone cause (quello per il quale Richard Gere va sulle navi di profughi, ma alla Meloni nessuno l’ha spiegato, l’hanno lasciata lì senza dizionari a cianciare di «visibilità», neanche quel gentiluomo d’un ufficiale fosse andato a fare il superospite a Sanremo). Il mondo, quella sera in cui Chiara cominciò una lunga trafila d’impegno che passava da Che Guevara (possibilmente ritratto su magliette Dior) e arrivava fino ad Alessandro Zan, il mondo si divise in entusiasti, per i quali una buona causa è una buona causa e, come il tubino nero, si porta su tutto; e in dubbiosi, cioè in noialtri nostalgici del Novecento e dei suoi tg.
Forse ve lo ricordate, il Novecento, magari ve l’hanno raccontato i vostri avi: era quel secolo in cui delle notizie venivi a sapere all’ora di cena, invece di prendere a ditate il telefono tutto il giorno, e il tizio che te le dava, se doveva passare dal dire che c’era la guerra alle Falkland al dire che era uscito il nuovo disco di Vasco Rossi, frapponeva un timido «e ora cambiamo argomento» (nei casi più teneri: «E adesso voltiamo pagina»). Era quando la merce era la notizia, e il conduttore di tg era un veicolo. Adesso, che tutti siamo la merce che vendiamo, non c’è bisogno di divisione tra i capitoli, né di legarli: la linea editoriale sono io, sei tu, è Chiara Ferragni, siamo noi che ambiamo a essere lei e parliamo nello stesso tipo di telecamera del telefono ma senza fatturare altrettanto, e sempre più sembriamo i comunisti di Palombella rossa: «Siamo diversi e siamo uguali, siamo uguali e siamo diversi».
Le storie di Instagram – quel tondino che sta in alto a sinistra in ogni pagina, e i cui video non possono durare più di quindici secondi l’uno, e la cui permanenza è di ventiquattr’ore, e che perciò sono i più guardati, ora o mai più, mica lo recuperi quando ti pare come fosse un Netflix qualunque – scorrono da sole, la pagina non la volta chi le fa né chi le guarda, quelle storie lì – i servizi di tg di questo secolo su misura – nessuno le conduce. Nella continuità ci siamo quindi abituati a vedere moltitudini. Ieri, le storie – rarefatte causa bambina in ospedale – di Chiara Ferragni erano: la bambina sta meglio, mandateci pensieri positivi; è uscito il romanzo di mia madre; è arrivata la mia nuova collezione di orecchini. Le storie – assai seguite in questi giorni, causa allarme corna – di Wanda Nara: io e Icardi avevamo deciso di lasciarci, lui aveva deciso di riempirmi di soldi, ma poi io ho deciso di no; sono usciti i miei nuovi fard; sono stata gratis in questa stanza d’albergo.
È perciò profondamente ingiusto che l’unica cui non viene consentito muoversi dentro l’economia del sé proprio come fanno tutti gli altri sia la povera Jayne Rivera, tiktoker di Miami di cui ignoravo l’esistenza finché i giornali – che cattiveria – hanno stigmatizzato un post in cui mostrava una galleria di otto pose da aspirante modella, in giacca monospalla, scattate davanti alla bara del padre. Bara aperta, ma giuro che il cadavere si vedeva pochissimo, e lei si notava fosse fotogenicamente affranta. Più che la Ferragni per George Floyd, forse, addirittura. Certo, alzava la gambetta, ma la alzava anche in una precedente foto al cinema, davanti alla locandina di Dune (che definiva «sopravvalutato»). Se lei è il prodotto e lei è l’economia, è giusto che alzi la stessa gambetta: sia che ci venda la sé orfana, sia che ci venda la sé cinefila. E invece l’hanno criticata aspramente, povera Jayne, e si è spaventata e nel pomeriggio ha cancellato l’account.
E intanto Alessandro Zan passava da «la legge o così com’è o meglio niente» a «voglio trattare sugli articoli uno per uno e quei cattivoni della Lega vogliono mandarla al voto così com’è» nello spazio d’una sola apparizione (mariana) di Letta da Fazio, e per fortuna Chiara aveva la bambina malata, Wanda aveva la minaccia rientrata di divorzio, Jayne non aveva proprio più un account, e nessuna poteva giocare all’engagée e mettersi un filtro caruccetto e scriversi «DDL Zan» sulla mano, il disegno di legge più instagrammabile della storia delle democrazie non faceva più da intervallo con le pecore tra una instavendita di mascara e una di vita familiare, Zan sembrava sempre più Gassman in quell’ultima scena da ladruncolo, in quel bianchennero novecentesco, senza il format dei quindici secondi: «M’hanno rimasto solo, ’sti quattro cornuti».