di Mario Sechi (agi.it, 12 luglio 2021)
Lo sport è una grande officina d’immaginario. Il Calcio è il suo prodotto più sofisticato, il gioco bellissimo. La Nazionale italiana ha vinto la finale dei campionati europei, in casa dei Leoni d’Inghilterra, in un luogo dove si entra in punta di piedi, Wembley, il tempio del football. Abbiamo visto una partita-thriller, il gol inglese al gin ghiacciato, appena usciti dallo spogliatoio, una frustata, il pareggio da biliardo di Bonucci, il possesso di palla schiacciante degli Azzurri, i supplementari e poi la giostra dei rigori con due parate sibilanti come il vento di Gigio Donnarumma, l’uomo elastico.
Siamo campioni d’Europa e possiamo dire con orgoglio di aver visto giocare “una squadra”. Questo aspetto, quello del team, è più importante di quanto si immagini. Vale la vittoria. E questa vittoria vale lo spirito di una nazione. Il suo sentimento nel presente e la sua fiducia nel futuro. Se tutto è politica – e lo è, leggere Aristotele –, allora il successo di Wembley ha una serie di significati e lezioni da ricordare. Quali? Il primo punto, quello da cui partono tutte le imprese collettive: una squadra di fenomeni senza un grande allenatore non va da nessuna parte, un gruppo di buoni giocatori con un trainer di valore va lontanissimo. Roberto Mancini in panchina ha dato alla Nazionale un gioco, un modulo, messo in campo giocatori tutti indispensabili e allo stesso tempo intercambiabili. Non siamo mai stati preoccupati per le sostituzioni, spesso le abbiamo invocate, perché sapevamo che erano la soluzione dello stratega, Mancini. L’Italia è entrata nella stagione del “metodo”, dell’ordine creativo, quello del Mancio… e quello di Draghi. Il “metodo” studiato a Coverciano e quello applicato a Palazzo Chigi. Si possono sostituire i giocatori, l’allenatore no. Fatto il gruppo, la squadra che vince si (s)cambia, questa è la novità. E questa è la regola del Rinascimento dell’arte del governo e del calcio in Italia. Non basta far sognare, i sogni bisogna realizzarli. Ogni riferimento alle prestazioni sul campo dei governi precedenti (quello giallo-verde e quello giallo-rosso) è puramente voluto. Non occorre una laurea in politologia alla Kennedy School of Government per arrivare alle conclusioni, è un passaggio di quelli facili della Settimana Enigmistica, unisci i puntini e scopri le differenze. La faccenda di Wembley è talmente politica che abbiamo assistito al tragicomico fenomeno dei “gufatori” della Nazionale. Strane sagome che, pur di non vedere il presidente Sergio Mattarella gioire a Wembley e il premier Mario Draghi ricevere gli Azzurri a Palazzo Chigi, erano pronte a mangiare per sempre fish and chips nei pub di Soho. L’avventura di questa armata di expat del football si è chiusa con Donnarumma che s’allungava sulla palla come un cobra che balza fuori dal cestino dove poco prima danzava mansueto al suono del piffero. Sono rimasti tutti fulminati. Dopo la catastrofe rimediata in Anglia, auguriamo loro di tornare a gustare l’amatriciana e bere vino dei Castelli.
Lasciamo queste buffe rappresentazioni, torniamo all’analisi politico-calcistica. Dell’allenatore al centro del sistema abbiamo scritto, un altro paio di righe bisogna dedicarle alla squadra. Mancio ha preso i calciatori che servivano a far funzionare il suo modulo, non per forza i migliori, i nomi altisonanti, qualche “personaggio” buono per fare gol nel marketing ma sempre con il tiro fuori dallo specchio della porta. Prendete uno come Federico Bernardeschi, a Firenze lo chiamano “Brunelleschi”, ha avuto una stagione difficile in campionato con la Juventus, c’era chi non lo voleva tra i convocati, poi chiamato in campo ai supplementari agli Europei ha tirato due staffilate di rigore nella porta degli avversari, senza quei colpi da freddo cecchino non saremmo qui a raccontare la vittoria azzurra. “Ho sofferto tanto” ha detto di fronte alle telecamere dopo la vittoria, in lacrime. Anche il governo Draghi funziona con il codice dell’incastro non di quelli più bravi ma di “quelli che servono” (la bellezza dell’etimologia della lingua che s’incrocia con la cronaca, “to serve” nel tennis descrive il colpo del primo attacco, il “servizio” – onore a un nuovo titano dell’altro gioco bellissimo, Matteo Berrettini, finalista nel sacro prato verde di Wimbledon). La squadra è un’orchestra, non un patchwork di solisti. Il tocco magico è quello dell’Arturo Toscanini sul podio, l’organizzatore degli altri, il capo. Mancini e Draghi sono italiani di poche parole, due spiriti pragmatici con il gusto del dribbling improvviso, dell’assist fulminante, fanno funzionare la macchina del gioco e del governo perché prima di tutto applicano il modulo alla fantasia, sono capaci di variarlo restando fedeli al “metodo”. Parola che evoca non a caso lo schema inventato da un allenatore dimenticato, Vittorio Pozzo: vinse due mondiali nel 1934 e nel 1938, furono le sue idee rivoluzionarie a cancellare lo schema allora dominante della “piramide di Cambridge”. La nostra storia s’incrocia sempre con quella dei Britons.
La vittoria agli Europei è un fatto politico, perché apre e (s)chiude il sottotesto dello scenario internazionale, aumenta la velocità e voglia di ripresa di un Paese che ha vissuto un periodo drammatico della sua storia. Il New York Times parla di “national resurgence”, una rinascita nazionale che ha il gusto del pane appena sfornato, siamo di fronte a un evento che “risolleva lo spirito”. Con l’Italia c’era (e ci sarà, perché Draghi ne ha de facto già assunto la leadership) l’Unione Europea dei fondatori, perché tra gli elementi del sottotesto era vivo e pulsante (anche) il tema della Brexit e perfino del Regno (dis)Unito. Fu Draghi a chiedere di prendere in considerazione l’idea di non giocare la finale a Wembley per la presenza diffusa della variante Delta in Inghilterra. E con lui c’era Angela Merkel. Sono schermaglie che proseguiranno su altri terreni da gioco, è la vita delle nazioni e dei blocchi geopolitici che competono in un mondo connesso, complesso, accelerato e compresso. La presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen e il presidente Emmanuel Macron, la Germania e la Francia, l’asse del destino dell’Europa, hanno tifato per l’Italia contro l’Inghilterra dei “Brexiters” di Boris Johnson. E gli indipendentisti scozzesi hanno ritratto Mancio sulla prima pagina di The National come il loro William Wallace made in Jesi con un titolo beffardo: Save us, Roberto, you’re our… final hope. La speranza italiana che riscatta gli scozzesi contro gli inglesi. L’ironia che diventa fatto politico, visioni e divisioni del mondo.
Non è solo sport, non lo è mai, non è un fatto effimero, ma un dato profondo dell’immaginario di un Paese, fa parte della sua storia, la nostra. Una squadra che vince, unisce il Paese, inocula il vaccino della fiducia di cui abbiamo bisogno per la ripartenza dell’economia, delle nostre relazioni. Stiamo entrando in un “new normal” di cui vediamo i bagliori, non è un ritorno al come prima più di prima, è un cambiamento rapido del paradigma. Siamo italiani e la canzone del grande Giorgio Gaber, Io non mi sento italiano, oggi assume un sapore più dolce, ma resta un memento, non dobbiamo e non possiamo ripercorrere le strade lastricate di errori del passato. Quella storia è finita e lo spartiacque simbolico è l’impresa di Wembley. Nel 1982 l’immagine che si fissò nell’immaginario del Paese fu la partita a scopa in aereo, nel viaggio di ritorno, tra Sandro Pertini, Dino Zoff, Franco Causio ed Enzo Bearzot. Sul tavolino, la Coppa del Mondo. Oggi ne abbiamo un’altra, una figura seduta sulla tribuna di Wembley, intabarrata nel suo trench, i capelli bianchi spazzolati dal vento, un sorriso che si spalanca verso il futuro, le braccia alzate, l’applauso di un uomo che ha retto l’urto di una crisi epocale con l’arma della sua “forza tranquilla”. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, la Fortuna.